giovedì 21 novembre 2013

Il sistema scolastico integrato pubblico-privato è in contrasto con la Costituzione


Il sistema scolastico integrato pubblico-privato è in contrasto con la Costituzione *
di Corrado Mauceri

1. La legge di parità: una logica conseguenza del processo di aziendalizzazione del sistema scolastico e del cosiddetto processo di “ammodernamento” della Costituzione.

Il referendum di Bologna ha avuto il merito di riaprire, a livello nazionale, una discussione sulla sempre più diffusa politica volta a realizzare, sulla scia della scellerata Legge di parità (L. n. 62 del 2000), un sistema scolastico integrato pubblico-privato.

Il sistema integrato pubblico-privato è in palese contrasto con la Costituzione perché viola anzitutto il diritto di tutti di accedere alla scuola statale e perché la Costituzione afferma in modo chiaro che l’istituzione di scuole private deve essere “senza oneri per lo Stato”. Dobbiamo però domandarci: perché, se la Costituzione lo esclude, un tale modello di sistema scolastico è diffusamente realizzato anche da quelle forze politiche che si dichiarano rispettose della Costituzione (il PD anzitutto) e si considera persino una soluzione di buon senso perché consentirebbe anche un risparmio di risorse pubbliche?

Nello stesso tempo dobbiamo riflettere sull’esito del referendum di Bologna; difatti, se la dirigenza del PD propone, a tutti livelli, il sistema integrato pubblico-privato, l’esito del referendum di Bologna ha dimostrato che la gran parte dell’opinione pubblica è ancora convinta che le scuole private devono essere istituite “senza oneri per lo Stato.

Solitamente la scelta del sistema scolastico integrato è considerata una concessione della sinistra ed in particolare del Ministro Berlinguer al mondo cattolico per assicurarsi il sostegno dell’area cattolica alla riforma berlingueriana dei cicli scolastici.

Certamente è stata anche questo, ma soprattutto è un aspetto di una nuova idea di scuola, che nasce e si sviluppa (ovviamente con tante contraddizioni ed anche resistenze) negli anni 90 nell’ambito di una egemonia culturale neoliberista e soprattutto nella subalternità del gruppo dirigente dell’ex PCI, culturalmente travolto dal crisi del comunismo reale.

Meno Stato, più privato” in quegli anni era diventato la sintesi di un pensiero unico che accomunava gran parte della classe dirigente del Paese. In questa generale ubriacatura neoliberista si sviluppa anche l’ossessione dell’ammodernamento della Costituzione che, in concreto, si traduce nella costante violazione dei principi costituzionali nell’indifferenza più generale.

In questo contesto di subalternità culturale del maggior partito di centro-sinistra (prima PDS, poi DS ed ora PD) al pensiero unico del “primato del privatosi sviluppa un processo di “decostituzionalizzazione” delle nostre istituzioni che ovviamente coinvolge anche il sistema scolastico costituzionale, peraltro mai compiutamente realizzato; si mette quindi in discussione il ruolo istituzionale della scuola statale, concepita come sinonimo di scuola centralista e burocratizzata, e si avvia un processo di aziendalizzazione del sistema scolastico con una progressiva omologazione tra scuola pubblica e scuola privata. Questa cultura subalterna, incapace di immaginare che lo Stato può essere democratico e pluralista (come quello definito nella Costituzione), pensa che lo sviluppo del sistema scolastico si realizza mutuando i modelli aziendalistici e superando la distinzione tra pubblico e privato in un unico sistema integrato.

Nel 1994 fu pubblicato un documento con primo firmatario il futuro Ministro Luigi Berlinguer, intitolato Nuove idee per la scuola, in cui tra l’altro si afferma:

Si deve pensare a un sistema formativo pubblico, nazionale ed unitario, del quale partecipano scuole statali e non statali…”:

è l’atto di nascita del sistema scolastico integrato, cioè un’idea di scuola alternativa alla scuola della Costituzione, che invece distingue tra scuola statale aperta a tutti per la sua funzione istituzionale per la formazione democratica delle nuove generazioni e scuola privata che si istituisce per finalità di parte e non può essere la scuola di tutti e per tutti.

2. Il contesto culturale ed istituzionale in cui si colloca e si sviluppa il sistema scolastico integrato pubblico-privato.

Queste nuove idee per la scuola si collocano in un contesto culturale ed istituzionale che non riguarda soltanto il sistema scolastico, ma investe l’assetto istituzionale nel suo complesso ed in tutte le sue articolazioni. In sintesi (necessariamente schematica) i principali aspetti che coinvolgono il sistema scolastico sono:

2.1 La privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con il conseguente processo di aziendalizzazione degli uffici pubblici e quindi anche della scuola statale.

La privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti avviata nel 1993 (Presidente del Consiglio Amato) fu, paradossalmente, fortemente voluta dalla CGIL e soprattutto dalle componenti di sinistra della CGIL (FIOM, giuristi fortemente impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori come D’Antona, Alleva e tanti altri). Solo la CGIL Scuola si oppose (molto timidamente a livello di dirigenza nazionale, con molta più forza a livello di molte strutture di base).

L’idea, per la verità molto semplicistica e demagogica, era quella di realizzare l’unità di tutti i lavoratori; non si consideravano però le diversità strutturali e finalistiche tra l’azienda privata regolata dalla logica del profitto dell’imprenditore e l’ufficio pubblico, che deve perseguire l’interesse generale che non coincide con quello dell’amministratore.

Questo processo meriterebbe un’approfondita riflessione per gli sfasci che ha determinato in generale nella Pubblica Amministrazione e per le grandi contraddizioni che ha prodotto nel sistema scolastico.

2.2 La legge sulla “privatizzazione” del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici ed i successivi decreti attuativi.

L’art. 2 della L. 23/10/1992 n. 421 delega il Governo a dettare le norme per inquadrare il pubblico impiego nell’ambito del diritto del lavoro privato con l’introduzione della contrattazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.

In attuazione di tale legge delega furono emanati i seguenti decreti attuativi: il D.Lgs n. 29/93 (Presidente del Consiglio Amato, Ministro della Funzione Pubblica Barucci), i D.Lgs. n. 396/97, n. 80/98 e n. 387/98 (Presidente del Consiglio Prodi, Ministro della Funzione Pubblica Bassanini, Ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer). Tutta la normativa fu successivamente riordinata nel T.U. n. 165/01.

Quali sono le modifiche che incidono sullo status del docente e sulla libertà di insegnamento e quindi sulla funzione della scuola statale?

In sintesi (riportando il testo del T.U.):

Art. 2, comma 2: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, del Libro V del Codice Civile e delle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nelle imprese”.

Art. 2, comma 3: “I rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente”.

Art. 3, comma 2: “Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che le regoli in modo organico ed in conformità ai principi dell’autonomia universitaria”.

Art. 5, comma 2: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le norme inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.

Art. 25: "1. Nell'ambito dell'amministrazione scolastica periferica è istituita la qualifica dirigenziale per i capi di istituto preposti alle istituzioni scolastiche ed educative alle quali è stata attribuita personalità giuridica ed autonoma a norma dell'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni. I dirigenti scolastici sono inquadrati in ruoli di dimensioni regionale e rispondono, agli effetti dell'articolo 21, in ordine ai risultati, che sono valutati tenuto conto della specificità delle funzioni e sulla base delle verifiche effettuate da un nucleo di valutazione istituito presso l'amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all'amministrazione stessa.

2. Il dirigente scolastico assicura la gestione unitaria dell'istituzione, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane. In particolare, il dirigente scolastico, organizza l'attività scolastica secondo criteri di efficienza e di efficacia formative ed è titolare delle relazioni sindacali.

3. Nell'esercizio delle competenze di cui al comma 2, il dirigente scolastico promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi e la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio, per l'esercizio della libertà di insegnamento, intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica, per l'esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l'attuazione del diritto all'apprendimento da parte degli alunni.

4. Nell'ambito delle funzioni attribuite alle istituzioni scolastiche, spetta al dirigente l'adozione dei provvedimenti di gestione delle risorse e del personale.

5. Nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative e amministrative il dirigente può avvalersi di docenti da lui individuati, ai quali possono essere delegati specifici compiti, ed è coadiuvato dal responsabile amministrativo, che sovrintende, con autonomia operativa, nell'àmbito delle direttive di massima impartite e degli obiettivi assegnati, ai servizi amministrativi ed ai servizi generali dell'istituzione scolastica, coordinando il relativo personale.

6. Il dirigente presenta periodicamente al consiglio di circolo o al consiglio di istituto motivata relazione sulla direzione e il coordinamento dell'attività formativa, organizzativa e amministrativa al fine di garantire la più ampia informazione e un efficace raccordo per l'esercizio delle competenze degli organi della istituzione.

E’ evidente che la suesposta normativa mette in discussione l’assetto democratico della scuola ed in particolare lo status del personale docente ed introduce un modello gerarchizzato ed aziendalistico che contrasta in modo palese con il principio costituzionale della libertà di insegnamento e con il ruolo istituzionale che la Costituzione assegna alla scuola statale. Questi interventi tendono a configurare la scuola statale come un’azienda in cui il ruolo professionale del personale docente è gestito da un manager con i poteri del privato datore di lavoro al pari della scuola privata.

Si avvia quindi un processo di trasformazione ed omologazione della scuola pubblica al modello aziendalistico della scuola privata dove il gestore detta le regole ed il progetto educativo, che il personale docente è tenuto a realizzare con una legittima limitazione della propria autonomia professionale.

Deve però essere chiaro che questo processo di omologazione al modello aziendalistico senza dubbio è stato avviato, ma non è stato compiutamente realizzato, anche perché le forti resistenze del mondo della scuola hanno impedito finora una piena e definita realizzazione dell’aziendalizzazione e della sua organizzazione manageriale.

Lo stesso art. 25, che pure ha introdotto la figura manageriale del Dirigente Scolastico, paradossalmente con l’esplicito riferimento agli Organi Collegiali ha riaffermato l’organizzazione democratica della scuola statale, introducendo una indubbia contraddizione che ridimensiona il modello aziendalistico; difatti, distinguendo la figura del dirigente in generale della Pubblica Amministrazione dalla figura specifica del dirigente scolastico, ha evidenziato la specificità della scuola e quindi la inapplicabilità alla scuola di tutte le norme che si riferiscono in generale alla P.A. (come per esempio il decreto Brunetta), ma soprattutto ha affermato che il Dirigente Scolastico esercita le proprie attribuzioni “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici.

Se si considera che le competenze degli organi collegiali scolastici sono ampie ed investono tutta la vita scolastica, in realtà si può sostenere che l’aziendalizzazione della scuola è una tendenza che si può facilmente realizzare se c’è (come in realtà c’è) una subalternità culturale (ma anche opportunistica) del mondo della scuola; si può invece neutralizzare se c’è un forte impegno nella gestione quotidiana degli spazi di democrazia scolastica.

Il mondo della scuola non può crearsi alibi; se passa il modello aziendalistico (e come si sa, PD e PDL nella passata legislatura avevano di comune accordo approvato la cosiddetta pdl Aprea-Ghizzoni, che avrebbe portato a compimento il processo di aziendalizzazione della scuola pubblica), la responsabilità è in primo luogo di chi può impedirlo e non lo impedisce. In questo senso desta molta preoccupazione la leggerezza con cui le organizzazioni sindacali, con la lodevole intenzione di tutelare i lavoratori della scuola dalle invadenze autoritarie di taluni dirigenti scolastici, intervengono indebitamente con la contrattazione e con le RSU sulle materie demandate dal T.U. n.297/94 agli Organi Collegiali della scuola; in tal modo non solo si contribuisce al processo di delegittimazione degli Organi Collegiali, ma inconsapevolmente si riconosce al D.S. competenze manageriali che lo stesso art. 25 subordina alle prerogative degli Organi Collegiali.

2.3 L’autonomia scolastica dimezzata e subordinata ai poteri di indirizzo e di controllo del Ministro.

La tanto conclamata “autonomia scolastica, introdotta per delega della L. n. 59 del 15/03/1997 (Presidente del Consiglio Prodi, Ministro della Funzione Pubblica Bassanini, Ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer), senza dubbio amplia le competenze delle istituzioni scolastiche, ma le colloca nella logica della nuova idea di scuola, non più istituzione che svolge una funzione statale nel prevalente interesse generale, ma azienda pubblica che, al pari di una azienda privata, svolge un servizio pubblico, come è già avvenuto per il settore sanitario.

Con il DPR sull’autonomia (DPR n. 275/99), difatti, oltre ai poteri del Dirigente Scolastico si rafforzano i poteri del Ministro, che in base all’art. 8 sono:

a. gli obiettivi generali del processo formativo;
b. gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni;
c. le discipline e le attività costituenti la quota nazionale dei curricoli e il relativo monte ore annuale;
d. l'orario obbligatorio annuale complessivo dei curricoli comprensivo della quota nazionale obbligatoria e della quota obbligatoria riservata alle istituzioni scolastiche;
e. i limiti di flessibilità temporale per realizzare compensazioni tra discipline e attività della quota nazionale del curricolo;
f. gli standard relativi alla qualità del servizio;
g. gli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni, il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi;
h. i criteri generali per l'organizzazione dei percorsi formativi finalizzati all'educazione permanente degli adulti, anche a distanza, da attuare nel sistema integrato di istruzione, formazione, lavoro, sentita la Conferenza unificata Stato-regioni-città ed autonomie locali.

L’aspetto emblematico di tale autonomia è il POF (Piano dell’Offerta Formativa), che è “il documento fondamentale costituito dall’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”. La stessa definizione di “Piano dell’Offerta Formativa” sta a sottolineare il carattere di proposta all’utenza da parte di ciascuna scuola in un sistema di concorrenza tra scuole, comprese ovviamente le scuole private paritarie: ciascuna scuola ha una propria identità culturale, è organizzata tendenzialmente in modo aziendalistico, gestita da un D.S. che, a differenza del personale direttivo che faceva parte della scuola, fa parte dell’Amministrazione Scolastica periferica e tutte, statali e paritarie private, governate dal Ministro (che non a caso non è più della Pubblica Istruzione) e dagli organi di controllo e valutazione.

La scuola statale si configura sempre di più nella sua funzione (servizio alla persona) e nella sua organizzazione simile alla scuola privata, perdendo sempre di più la sua funzione istituzionale di organo formativo (diceva Calamandrei “costituzionale”) dello Stato.

2.4 La riforma del Titolo V e il progetto di regionalizzazione della scuola.

Nella logica di una scuola-azienda erogatrice di un servizio pubblico, al pari del servizio sanitario, del trasporto pubblico ecc., anche per la scuola statale con la riforma del Titolo V del 2001, voluta dal PDS (anche nel vano tentativo di guadagnarsi le simpatie degli elettori della Lega), si delinea una forma di regionalizzazione, peraltro molto ibrida e contraddittoria e di difficile applicazione.

Il senso però è chiaro; essendo la scuola, statale o privata, un servizio alla persona e dovendo corrispondere, in un regime di concorrenza tra le scuole pubbliche e private, alle esigenze specifiche dell’utenza, è più funzionale che ciascuna Regione definisca un proprio modello scolastico sia sotto il profilo organizzativo sia anche, per taluni aspetti, sotto il profilo dei contenuti.

Questo tentativo di regionalizzazione si è di fatto arenato sia per l’opposizione del mondo della scuola sia per l’incapacità delle stesse Regioni, anche se alcune Regioni (Lombardia, Toscana, ecc.) hanno tentato di introdurre modelli scolastici regionali, ma con risultati scarsi.

3. La legge di parità: L. 10 marzo 2010 n. 62.

3.1 I principi costituzionali

In questo contesto politico-istituzionale e soprattutto culturale si colloca la cosiddetta legge di parità, che avrebbe dovuto dare attuazione all’art. 33 della Costituzione che sarà opportuno riportare:

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato”.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.

La Costituzione, che è la legge fondamentale dello Stato e che Ministri ed Amministratori delle istituzioni regionali e locali giurano di osservare, afferma:

1) E’ riconosciuto il diritto di istituire scuole non statali, ma “senza oneri per lo Stato”, cioè non solo sono precluse erogazioni di contributi sotto qualsiasi forma, ma anche forme di agevolazioni fiscali e di qualsiasi altra natura che possano comportare “oneri per lo Stato”, anche sotto il profilo del lucro cessante.

Né si può aggirare il principio “senza oneri per lo Stato” ricorrendo al modello del sistema integrato che consentirebbe, secondo alcune anime belle, una riduzione della spesa pubblica, perché il principio “senza oneri per lo Stato” è netto e non consente deroghe.

Come meglio si preciserà più avanti, il sistema integrato è incompatibile con l’obbligo della Repubblica di istituire scuole di ogni ordine e grado per tutti; inoltre l’integrazione presuppone una omogeneità dell’attività di insegnamento che nel sistema integrato non è realizzabile, perché l’insegnamento della scuola pubblica deve essere pluralistico, mentre quello privato può legittimamente essere di orientamento; la riduzione della spesa pubblica si tradurrebbe in una forma di illegittima discriminazione per coloro che, per la riduzione della spesa pubblica, sarebbero costretti a frequentare una scuola di orientamento.

Né si può invocare il principio di sussidiarietà previsto in generale nell’ultimo comma dell’art. 117 della Costituzione; “senza oneri per lo Stato” dell’art. 33 della Costituzione è una norma speciale che, combinata con il principio dell’autosufficienza del sistema scolastico statale, esclude qualsiasi forma di sussidiarietà e quindi di contributo pubblico a titolo di sussidiarietà.

2) La parità non trasforma la scuola privata in scuola pubblica; la scuola privata può rilasciare titoli di studio con valore legale, ma è pur sempre una scuola privata.

3) La scuola privata paritaria eroga un servizio, sotto tutti i profili, di natura privatistica e per finalità privatistiche; difatti la Costituzione stabilisce che la legge di parità “deve assicurare ed essi piena libertà”.

Lo Stato non può quindi imporre alle scuole paritarie alcun modello organizzativo né, tanto meno, un progetto educativo, né modalità di assunzione del personale. La scuola privata paritaria, anche se senza fini di lucro, è un’azienda privata che, per effetto della parità, è tenuta soltanto a:

a) assumere di personale in possesso dell’abilitazione all’insegnamento
b) osservare i curricula ministeriali
c) rilasciare, previo esame di Stato, titoli di studio equipollenti a quelli rilasciati dalle scuole private.

Quindi la scuola privata paritaria non è tenuta ad organizzarsi in modo democratico, non è tenuta a garantire la libertà di coscienza e di insegnamento del personale docente, che anzi può essere legittimamente obbligato ad osservare le finalità educative dell’Istituto, può essere una scuola di orientamento confessionale, culturale, di appartenenza.

La scuola privata paritaria ha quindi il diritto costituzionale di impartire un’educazione di parte e di conseguenza non può garantire lo stesso insegnamento della scuola pubblica, pertanto l’attività della scuola privata paritaria non è fungibile con quella statale. La Costituzione esclude un possibile sistema scolastico integrato pubblico-privato.

3.2 L’“ammodernamento” della Costituzione


Per la dirigenza del PDS ed in particolare per il Ministro all’epoca in carica la Costituzione doveva essere letta in modo evolutivo e moderno e soprattutto dovevano essere superate le vecchie ideologie stataliste e gli steccati pubblico-privato.

Con questa generosa opera di “ammodernamento” della Costituzione e senza bisogno di ricorrere nemmeno alla procedura di revisione costituzionale, destra e sinistra, contrapposte in campagna elettorale ed unite nell’ammodernamento della Costituzione (la Storia si ripete anche oggi) con la legge di parità stravolgono i suesposti principi costituzionali. Si delinea un nuovo sistema scolastico nazionale pubblico-privato.

La legge di parità difatti:

a) supera la distinzione tra sistema scolastico statale e non statale che, ex art. 33, comma 2 della Costituzione, dovrebbe essere autosufficiente, e prevede un sistema nazionale di istruzione che “è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali”.

Non più quindi un sistema scolastico statale autosufficiente rispetto alla domanda sociale ed, in aggiunta, scuole non statali che “possono” essere istituite, ma un unico sistema come se scuole statali e scuole paritarie fossero fungibili e concorressero alle stesse finalità.

La scuola statale perde la sua funzione istituzionale e le scuole paritarie private concorrono con la scuola statale alla formazione dell’offerta formativa. Si delinea quindi un sistema scolastico integrato che la Costituzione all’art. 33 aveva escluso.

b) “Alle scuole paritarie private è assicurata piena libertà (come prevede la Costituzione) per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico tenuto conto del progetto educativo, l’insegnamento è improntato ai principi di libertà sanciti dalla Costituzione”.

In sostanza anzitutto si garantisce alle scuole private paritarie di essere scuole di tendenza e quindi non pluraliste, si riconosce ad esse la piena libertà di organizzarsi nel modo che ritengono più opportuno e di darsi un proprio progetto, nell’ambito di tali preminenti prerogative devono anche osservare i principi di libertà sanciti nella Costituzione; nel contrasto però tra la libertà riconosciuta alla scuola privata ed un principio costituzionale, come il diritto alla libertà di insegnamento, come ha giustamente affermato la Corte Costituzionale (nel caso Cordero, licenziato dall’Università Cattolica), prevale la libertà della Scuola.

Non a caso nella legge di parità non si afferma mai la libertà di insegnamento.

c) Le scuole private paritarie svolgono un servizio pubblico e non, come afferma la Ministra Carrozza, una funzione pubblica.
Peraltro è un servizio pubblico non aperto a tutti perché deve essere accolto “chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi”; chi frequenta una scuola privata deve a priori, all’atto dell’iscrizione, accettare un determinato progetto educativo.

Precisa inoltre la legge di parità che “il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale o religiosa”.

d) In deroga al principio secondo cui l’attività docente deve essere svolta da personale in possesso della prescritta abilitazione, la legge di parità consente alle scuole private paritarie, “in misura non superiore a un quarto delle prestazioni complessive, di avvalersi di personale non abilitato”.

e) In coerenza con il ruolo assegnato alle scuole paritarie ed in palese deroga al principio “senza oneri per lo Stato”, la legge di parità prevede un contributo finanziario per le scuole paritarie primarie ed un ulteriore finanziamento per “spese di partecipazione alla realizzazione del sistema prescolastico (scuola per l’infanzia) integrato”.

4. Il solco tracciato dalla legge di parità: le scuole private concorrono a formare il sistema pubblico dell’istruzione.

Dal 2000 si sono alternate al Governo tutte le forze politiche del Paese, la legge di parità non solo non è stata mai messa in discussione, ma è stata sviluppata sia perché ha offerto una autorevole copertura istituzionale a tutte le varie amministrazioni locali e regionali per erogare contributi sotto varie forme alle scuole private, sia perché ha avuto una sua evoluzione nella direzione della omologazione tra pubblico e privato; difatti, con il secondo Governo Prodi e Ministro della Pubblica Istruzione Fioroni, nella legge finanziaria per il 2007 si incrementa il contributo alle Scuole paritarie in considerazione della “funzione pubblica” che esse svolgono.

Nella sua esposizione programmatica alle Commissioni parlamentari la Ministra in carica Carrozza nel richiamare la legge di parità afferma:

Infatti, come stabilito dalla legge 62 del 2000 il sistema pubblico di istruzione è composto dalle scuole statali e dalle scuole paritari… Occorre salvaguardare il carattere plurale del nostro sistema di istruzione attraverso misure volte a tutelare la qualità e l’inclusività anche delle scuole pubbliche paritarie”.

Ogni commento è superfluo; si deve soltanto passare dalla lamentevole denuncia delle politiche del PD all’iniziativa politica sia a livello sociale sia anche a livello istituzionale.

Considerazioni e proposte.

Considerazioni

Berlusconi ed i suoi Ministri hanno devastato la scuola pubblica; ma è stata una politica coerente perché la distruzione della scuola pubblica (e di tutto ciò che è pubblico) e dei diritti costituzionali è nel DNA della destra ed in particolare di personaggi come Berlusconi.

Si deve solo aggiungere che la politica dei tagli alla spesa per la scuola pubblica, da tutti criticata, è stata dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato in seguito ad un ricorso proposto da alcuni Comitati di genitori ed insegnanti con l’adesione di alcuni Enti Locali, ma non è stata adeguatamente contrastata dalle forze del centro-sinistra; difatti, ripetutamente sollecitate ad impegnarsi soprattutto nelle Regioni per dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato, le Regioni finora hanno fatto tutte acquiescenza all’operato illegittimo di Berlusconi Tremonti e Gelmini.

Regioni di Centro-sinistra e forze politiche che le governano sono tutte corresponsabili dei tagli alla scuola pubblica di oltre 8 miliardi.

Ma il PD (e le sigle precedenti) è stato e continua ad essere anche il promotore ed il diffusore della cultura della scuola pubblica-azienda, della integrazione tra scuola pubblica e scuola privata ed infine dei finanziamenti pubblici (sottratti alla scuola pubblica) per le scuole private e cioè in sintesi della palese violazione della Costituzione.

Le proposte

1. Necessità di una risposta politica concreta e coerente.
Se la scuola pubblica è, come è, una priorità assoluta per lo sviluppo sociale e democratico del Paese, la politica scolastica deve essere una discriminante politica ed elettorale; quindi la prima proposta, a mio avviso, deve essere quella di non votare e non fare votare le forze politiche che stravolgono la scuola della Costituzione e quindi il PD (attualmente impegnato anche a stravolgere in senso autoritario l’assetto istituzionale dello Stato).

Non si può per 364 giorni l’anno lamentarsi della politica scolastica del PD e dopo, il giorno delle elezioni, accettare la logica perversa del “voto utile” (ma utile a chi?) o addirittura lanciare appelli per il “voto utile”.

2. Se il sistema integrato pubblico-privato implica una aziendalizzazione ed omologazione di scuola pubblica e scuola privata, oltre che contestare tutte le forme di contributo alle scuole private, bisogna anzitutto rilanciare il ruolo istituzionale della scuola statale, cioè dello Stato e soprattutto evidenziare la “diversità” della scuola statale, rilanciare e praticare la democrazia scolastica.

Si tratta di dare ampia informazione sulle competenze attuali degli Organi Collegiali, sul ruolo effettivo che, nel rispetto del principio costituzionale della libertà di insegnamento, spetta al D.S. e di rivendicare il governo democratico non solo delle singole scuole, ma dell’intero sistema statale.

3. Occorre organizzare una risposta concreta, a livello nazionale, per contestare, a tutti i livelli, qualsiasi forma di sistema integrato e di contributo pubblico a favore della scuola privata.

In teoria si dovrebbe organizzare la contestazione anche sotto il profilo legale: ma è un’iniziativa costosa e soprattutto di scarsa efficacia politica, perché rischia di tradursi in una forma di “delega” alla magistratura; quindi significa che sotto il profilo politico si è perso.

D’altra parte iniziative locali, non essendo facilmente ripetibile l’iniziativa di Bologna, hanno una scarsa visibilità e scarsa incidenza; a mio avviso non c’è altra strada che la responsabilità politica: una campagna nazionale per il non voto alle forze politiche che violano la Costituzione, ma anche un impegno politico a costruire un soggetto politico nuovo ed unitario che abbia la sua centralità nell’attuazione della Costituzione e l’impegno diretto a livello istituzionale di coloro che vivono i problemi reali del Paese.

* Traccia, integrata con i riferimenti normativi, dell’intervento di Corrado Mauceri al Convegno “‘Senza oneri per lo Stato’, un principio costituzionale da rispettare: no al finanziamento alle scuole private”, Milano 26 Ottobre 2013.

 

 

mercoledì 4 settembre 2013

POLITICA- Marino,Emiliano,Pisapia ecc: tutti sul carro del vincitore

Dalle parole ai fatti.Il sindaco di Roma che in un passato recente si proponeva come punto di riferimento della sinistra PD,oggi ha omaggiato nella sua città il il possibile vicitore del PD; Pisapia che SEL riteneva un proprio riferimento, tifa per Renzi ; lo stesso Emiliano,Sindaco di Bari, e come lui Franceschini, Fioroni e via via altri se ne aggiungeranno; tutti affascinati da non si sa che cosa perchè nessuno conosce il progetto politico di Renzi al di fuori della sua fermna vocazione al potere. Per Pisapia, Emiliano ecc,. sarà nuova politica ; a me pare una vecchia politica con qualche spruzzata di giovanilismo; non a caso Fioroni si schiera con lui. IL problema è però il solito; dove è la sinistra? Corrado Mauceri

POLITICA - Il PD verso la democristianizzazione

La politica moderata e centrista portata avanti dal gruppo dirigente ex DS ha spianato la strada al renzismo che riesce ad accomunare le politiche neoliberiste con l'opportunismo democristiano;in tal modo, grazie all'incapacità politica degli ex DS, il PD diventa sempre di più PD(C). E' difatti logico che se si sceglie una politica centrista, il gruppo dirigente più idoneo a dirigerla è quello proveniente dalla DC; ogni partito ha il gruppo dirigente che si merita.Corrado Mauceri

domenica 1 settembre 2013

SCUOLA - La Ministra Carrozza critica i tagli della Gelmini, ma copre l'operato illegittimo della Gelmini

La Ministra Carrozza, a parole, critica i tagli agli organici della scuola operati dalla Gelmini e dichiarati illegittimi dal Consiglio di Stato, ma, nei fatti, li mantiene, coprendo l'operato illegittimo della Gelmini.
Ieri sera in occasione dell'incontro svoltosi a Firenze nell'ambito della Festa Democratica la Ministra Carrozza, dopo le consuete affermazioni sulla priorità della scuola, sulla lotta alla dispersione e tante altre belle ( ma anche non belle) affermazioni, ai precari che hanno denunciato la scandalosa situazione di decine di migliaia di docenti e di ATA ogni anno assunti ed ogni anno licenziati con ingiusta penalizzazione di lavoratori che hanno superato concorsi, corsi di specializzazioni ecc e dequalificazione dell'attività scolastica, ha risposto che la responsabilità  era  dei tagli agli organici operati dalla Gelmini.
Ma la Ministra Carrozza sa o dovrebbe sapere che i tagli operati dalla Gelmini sono stati dichiarati illegittimi dal Consiglio di Stato con sentenza del 30 luglio del 2011 e, quando ieri sera a conclusione dell'incontro, sono intervenuto dalla platea per ricordaglielo e per chiederle per quale ragione non ritira i decreti illegittimi della Gelmini, non ha risposto.
E' giusto criticare l'operato della Gelmini, ma se si coprono anche gli atti illegittimi della Gelmini non si può essere credibili. Corrado Mauceri

giovedì 1 agosto 2013

POLITICA-Il Partito di un leader condannato per frode fiscale non dovrebbe governare il Paese

Dopo la sentenza della Cassazione un Presidente del Consiglio,sostenuto dal Partito di un condannato a quattro anni per frode fiscale, avrebbe dovuto subito dimettersi per formare, se possibile, un nuovo governo di emergenza per consentire la rapida rovazione dei provvedimenti più urgenti ed in primo luogo,una nuova legge elettorale conforme ai principi costituzionali. Invece, con l'incredibile sostegno questo Governo, sostenuto da un condannato per frode fiscale,non solo rimane in carica,ma con il sostegno dell'ineffabile Presidente Napolitano dovrà impegnarsi nella riforma della giustizia. Il frodatore fiscale ha subito risposto lanciando un messaggio di impegno nella lotta contro l'indipendenza della Magistratura. Il PD continuerà a far finta di niente? ma soprattutto la sinistra continuerà ad essere divisa e quindi politicamente assente?

martedì 30 luglio 2013

SCUOLA - I ricorsi contro i tagli alla Gelmini

La contestazione dei tagli della Gelmini: il ricorso al TAR e le precedenti sentenze, non attuate,del TAR e del CdS, l'interrogazione parlamentare dei parlamentari di SEL e del MS, l'acquiescenza delle Regioni di centro- sinistra, l'intervento ad adiuvandum del Comune di Palermo e la risposta , quanto meno, singolare di un anonimo sottosegretario. Che fare? L'antefatto I ricorsi al TAR contro i tagli agli organici operati dalla Gelmini furono promossi nel contesto di una più generale lotta di studenti, genitori e personale della scuola contro i provvedimenti del Governo Berlusconi- Gelmini che prevedevano tagli per oltre 8 miliardi per la scuola; la Gelmini riuscì a violare le stesse norme che prevedevano tali tagli;a fronte di tali irregolarità ,i Comitati locali dell' Ass. Per la scuola della Repubblica ritennero opportuno approfittare delle irregolarità dei provvedimenti della Gelmini per sostenere, anche con le iniziative legali, le contestazioni politiche contro i tagli agli organici. Per effetto di tali ricorsi i decreti Interministeriali che stabilivano i criteri per la determinazione degli organici ( e cioè dei tagli) per gli aa.ss. 2009-10 e 2010-11 furono dichiarati illegittimi sia dal TAR del Lazio che dal CdS; di conseguenza tutti i provvedimenti attuativi di tali decreti , dichiarati illegittimi,erano ovviamente anche essi illegittimi per illegittimità derivata ( il sottosegretario che ha risposto all'interrogazione dei parlamentari di SEL e M5S ignora tale principio elementare del diritto , ma anche del buon senso). Nessuno però si è attivato per chiedere l'attuazione delle sentenze del TAR e del CdS e per rimettere in discussione detti tagli: nè le Regioni di centro-sinistra ( che peraltro erano state inutilmente e reipetutamente sollecitate ad intervenire in giudizio a sostegno dei ricorsi), nè le forze politiche che avevano contestato, a livello politico, i tagli, ma nemmeno le organizzazioni dei genitori, degli studenti e degli stessi docenti. L'udienza del TAR per gli organici del 2011-12 e l'appello del Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione a sostegno del ricorso. Anche gli organici del 2011-12 furono tempestivamente inpugnati ed anche in tale circostanza le Regioni di centro-sinistra furono inutilmente sollecitate ad intervenire;in vista dell'udienza, in precedenza, fissata dal TAR per il 5 luglio scorso, fu ancora una volta rinnovato l'appello per sollecitare l'intervento in giudizio delle Regioni che ai fini del giudizio è divenuto determinante; difatti dagli atti depositati al TAR è risultato che la Conferenza Unificata Stato Regione ed Enti Locali , a seguito della richiesta di parere da parte della Gelmini,aveva chiesto di avviare un tavolo di confronto, dalla Gelmini rifiutato. Le Regioni quindi, a fronte di tale sostanziale rifiuto della Gelmini, potevano ( e possono ancora) fondatamente intervenire in giudizio per contestare l'operato della Gelmini, così come la nuova Ministra, essendo gli organici 2011-12 ancora subjudice, avrebbe potuto ritirare il decreto della Gelmini ed aprire con la Conferenza Unificata quel tavolo di confronto che la Gelmini aveva rifiutato. La Ministra e le Regioni accettano i tagli della Gelmini ; il Comune di Palermo ed i parlamentari di SEL e del M5S del Senato accolgono l'appello del Coordinamento Nazionale La Ministra Carrozza , sollecitata dal Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione a ritirare il decreto, ha mantenuto di fatto i tagli della Gelmini che però sono sub judice; le Regioni hanno fatto acquiescenza al rifiuto della Gelmini e di conseguenza anche ai tagli operati dalla Gelmini.. All' appello del Coordinamento Nazionale per la Scuola della Costituzione hanno risposto finora soltanto il Comune di Palermo che è intervenuto in giudizio a sostegno del ricorso e i parlamentari di SEL e M5S del Senato che hanno presentato una interrogazione urgente al MInistro. Riportiamo integralmente il testo di una risposta di un non identificato Sottosegretario: DI SEGUITO: "RIGUARDO ALLE RIDUZIONI DI ORGANICO RELATIVE AGLI ANNI SCOLASTICI 2009/2010, 2010/2011 E 2011/2012, NON RISULTA CHE NE IL TAR, NE' IL CONSIGLIO DI STATO LE ABBIANO DICHIARATE ILLEGITTIME. IL TAR DEL LAZIO HA ANNULLATO I RELATIVI DECRETI INTERMINISTERIALI PERCHÉ HA RITENUTO CHE NON FOSSERO STATI PREVIAMENTE SOTTOPOSTI ALLA CONFERENZA UNIFICATA. I Precari si avviano ad una richiesta di autorizzazione di assunzioni per il 2013/2014, con un impegno per riattivazione di un tavolo di confronto con la Conferenza Unificata per l'individuazione di ulteriori criteri e modalità di distribuzione degli organici alla luce delle esigenze del territorio" Ogni commento alla risposta del Sottosegretario ci sembra superflua;Potremmo soltanto consigliare il Sottosegretario di consultare uno studente al 1° anno di giurisprudenza prima di avventurarsi in risposte di cartattere giuridico. Che fare? L'acquiescenza delle Regioni al rifiuto della Gelmini di avviare un tavolo di confronto indebolisce fortemente, sotto il profilo giuridico, il ricorso; l'udienza è fissata per il 21 novembre p.v. ; ha senso portare avanti il ricorso se si verifica almeno una delle due condizioni: 1 - Almeno una Regione intervenga in giudizio a sostegno del ricorso oppure impugni in via autonoma il D.I. che non è stato mai pubblicato in G.U. e quindi può essere ancora tempestivamente impugnato dalle Regioni. 2 . La contestazione dei tagli diventi un impegno politico di massa nelle scuole con una manifestazione nazionale a Roma davanti al MIUR per chiedere, prima dell'udienza, una ridiscussione degli organici. Io penso che, se entro i primi giorni di settembre non si sarà verificata nessuna delle due condizioni, sarà opportuno,sia sotto il profilo politico e giuridico , prendere atto della acquiescenza delle Regioni e quindi considerare cessata ( sotto il profilo giuridico) la materia del contendere . Senza dubbio sarà un'altra occasione persa per mettere concretamente in discussione la politica dei tagli alla scuola della Gelmini e di B.; ma bisogna prendere atto della realtà. Io ho espresso le mie considerazioni; ovviamente sono disponibile al più ampio confronto e penso che ogni decisione finale debba essere meditata e condivisa. A presto. Corrado Mauceri __._,_.___

sabato 6 luglio 2013

POLITICA - COSTITUZIONE- Un uso illegittimo del potere di revisione

Intervista al Prof Alessandro Pace ( a cura di Fabozzi -( Il Manifesto del 6/7/13)
 
«Siamo di fronte a un uso illegittimo del potere di revisione». Sul ddl riforme, in aula al senato da martedì, l'insigne costituzionalista Alessandro Pace mette in guardia contro «la tentazione degli "scambi" tra diverse modifiche costituzionali». «Il presidenzialismo abbassa il tasso di democrazia. Pericoloso che si possa cambiare anche la prima parte».
Alessandro Pace, professore emerito a Roma e costituzionalista insigne, ribalta le accuse di «conservatorismo». Anzi sottolinea che il procedimento di revisione costituzionale serve proprio ad adeguare la costituzione alle mutate esigenze politiche e sociali, «purché però se ne rispettino le regole che, per il nostro ordinamento, sono quelle previste dall'articolo 138, con il limite dell'immodificabilità della forma repubblicana e dei principi costituzionali supremi, tra cui il principio della salvaguardia della rigidità costituzionale, che è il più supremo di tutti».
Questo significa, professore, che non bisogna temere il disegno di legge costituzionale 813 che la prossima settimana arriva all'esame dell'aula del senato?
Al contrario, in questo caso siamo di fronte a un uso illegittimo del potere di revisione. Bisogna considerare che il governo non ha proposto una modifica permanente dell'articolo 138 della Costituzione (il che è possibile, ma alle condizioni che le ho ricordato). Al contrario, dai sostenitori di esso si è detto che è stata prevista una "deroga" una tantum, il che è inesatto. Si ha una deroga quando una norma speciale si sostituisce una tantum a una normativa generale. Ma la così detta norma speciale (e cioè la procedura di revisione prevista del disegno di legge costituzionale 813) non è affatto puntuale e una tantum, perché, all'esito (se cioè l'813 andasse in porto) i cittadini viventi e quelli futuri avrebbero una forma di governo diversa, un bicameralismo diverso e rapporti Stato regioni diversi dagli attuali. Altro che norma una tantum! Il vero è che l'813 determina una illegittima sospensione temporale dell'articolo 138.
A che scopo, secondo lei?
Allo scopo di affrontare non separatamente e specificamente le singole leggi di revisione come i costituenti previdero nella loro saggezza, ma di discutere insieme i vari progetti, esaltandone l'interdipendenza e favorendo - come già abbiamo visto in passate versioni delle "bicamerali" - la tentazione degli "scambi" tra diverse modifiche costituzionali. Anzi la collocazione della legge elettorale tra le materie di competenza della nuova Bicamerale rappresenta, per gli scambi, il cacio sui maccheroni, avendo essa un significato politico rilevantissimo ancorché distorcente nell'ottica delle riforme costituzionali. Si ha un bel dire che l'813 prevede che i disegni di legge debbano essere formalmente autonomi e omogenei. Questo infatti non esclude l'interdipendenza delle soluzioni.
Ha anticipato una risposta alle sue obiezioni: proprio lei ha sempre insistito sulla necessità di riforme omogenee e adesso che il governo ha recepito questa raccomandazione non è soddisfatto?
Intanto ho pubblicamente riconosciuto che prevedere esplicitamente più leggi differenziate per argomento è stato un passo in avanti. Ma non posso non riflettere sul fatto che si tratta di argomenti assai ampi. Ognuno dei quattro titoli della seconda parte della Costituzione ai quali ci si vuole dedicare contiene una quindicina di articoli. L'omogeneità non basta, ci vuole anche la specificità. Mi spiego, prendiamo il bicameralismo. Io potrei essere favorevole alla riduzione dei parlamentari ma non al senato federale. Non mi si può chiedere di pronunciarmi su questi due temi che fanno parte dello stesso titolo con un unico sì o con un unico no.
La versione del governo è che si tratterà di più modifiche della Carta, ma tutte «puntuali».
Quella che viene proposta è in realtà una revisione totale della Costituzione, a mio avviso possibile solo per quelle costituzioni che lo prevedono espressamente. Come la Costituzione svizzera e spagnola, che hanno una procedura diversa, ulteriormente aggravata, per le revisioni totali. Ad esempio impongono che il parlamento venga sciolto e che i cittadini tornino alle urne tra la prima e la seconda lettura in maniera tale da rendere esplicita la clamorosa novità. In Italia questo non è consentito, perché non è previsto esplicitamente.
In definitiva lei ammette solo revisioni di piccola portata?
Niente affatto, diversamente da molti miei colleghi io penso che la Costituzione possa essere modificata anche con riguardo alla forma di governo. Purché non si incida sul principio intangibile della democrazia. L'articolo 139 ci dice che la forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. Ma quale forma repubblicana? Quella democratica dell'articolo 1. Ne discende che non possono essere consentite modifiche alla forma di governo che comportino una diminuzione della democrazia. E' per questo che non mi sta bene il regime semipresidenziale alla francese. In esso non sono previsti adeguati contropoteri, come osservò benissimo lo stesso presidente Napolitano nel discorso per il sessantesimo della Costituzione che meriterebbe di essere meditato.
Un'ultima domanda, come giudica la soluzione trovata in commissione al senato, per cui il comitato potrà occuparsi anche degli articoli della prima parte della Costituzione per proporre modifiche «strettamente connesse» alla seconda parte?
Non sapevo che fosse stata approvata una modifica così rilevante. A mio modo di vedere è stata così svelata un'ipocrisia, che stava dietro alle affermazioni che la modifica della seconda parte non avrebbe effetti sulla prima, quando il contrario discende dal rilievo elementare che l'operatività concreta dei diritti, di tutti i diritti (si pensi a quello che è successo alla scuola in questi anni...), è condizionata non solo dalla forma di governo ma anche da chi sta al governo. In ogni caso è molto grave che vi sia quest'ulteriore occasione di interdipendenza e, purtroppo, di interscambio.

 

POLITICA-COSTITUZIONE - Presìdi umani contro lo scempio della Costituzione

 
COMMENTO  di  Pancho Pardi  ( dal MANIFESTO del 5/7/13)
 
La legge di modifica costituzionale trattata come ordinaria legge d'urgenza. Fretta e tempi contingentati. Martedì notte in poche ore la Commissione Affari Costituzionali ha licenziato il disegno di legge 813 che istituisce il Comitato di 20 senatori e 20 deputati cui è attribuito il compito di modificare la Costituzione in ben 4 Titoli della seconda parte (I, Il Parlamento; II, Il Presidente della Repubblica; III, Il Governo; V, Le Regioni, le Provincie e i Comuni).
In materia di stretta pertinenza parlamentare, il disegno è di iniziativa del governo. Questo nasceva con scopi limitati e temporanei ma ora detta modi e tempi per cambiare una Costituzione che era stata confermata a larga maggioranza dal popolo nel referendum del 2006. E lo fa con una plateale e molteplice violazione dell'articolo 138, che regola le modifiche costituzionali. La prima violazione è globale. Una coerente giurisprudenza costituzionale ha sancito il principio che le modifiche devono essere di carattere emendativo, puntuali e omogenee. Questo il centrosinistra aveva opposto alla riforma del centrodestra. Ora il Pd tradisce il principio e accetta di discutere modifiche complesse fino al punto di poter cambiare la forma di governo e di Stato. Si rovescia la ratio costituzionale. Finora la revisione costituzionale era subordinata alla Costituzione. Ora si eleva la revisione a prassi dominante sulla Carta.
Il governo non ha il coraggio di cambiare l'art. 138 ma lo deroga. La sede propria della discussione parlamentare sono le Commissioni al completo, ognuna per conto proprio oppure insieme in sede bicamerale. Qui si inventa un comitato bicamerale di commissioni incomplete: 20 senatori e 20 deputati, di cui resta oscuro il criterio di scelta. Il principio di rappresentanza viene alterato: non valgono solo i seggi ma anche i voti ricevuti. Il Pd rinuncia all'effetto del premio di maggioranza alla Camera. Mentre si illude che il fair play possa rabbonire il Caimano trascura il fatto che l'opposizione resta pericolosamente schiacciata. Le Commissioni Affari Costituzionali, si dice, continueranno a lavorare: quando e come? Di fatto, non potendo trattare la vasta materia della revisione costituzionale, sono esautorate dal Comitato dei 40. Ma un punto di gravità oggi incalcolabile è le predeterminazione dei tempi. La volontà del governo, assistita dalla coriacea regia del Quirinale, pretende che tutto sia concluso entro un anno e mezzo. Non solo Commissioni e Aule a passo di carica, con tempi contingentati, come se si trattasse di un decreto legge, ma accorciamento a un mese del periodo di tre messi previsto dalla Costituzione vigente per il secondo passaggio nelle Camere.
Dei temi principali di modifica ci sarà occasione di parlare in modo approfondito, ma un solo accenno basti. Se tutto va come le larghe intese vogliono, con questa procedura da formula 1 potremmo ritrovarci in una repubblica presidenziale, in cui per la stessa fretta non si sarà neanche trovato il modo di impedire che il presidente sia il proprietario delle televisioni private e dominatore di quelle pubbliche.
È ora necessaria un'energica ripresa dell'iniziativa popolare. Bisogna contrastare in tutte le sedi il principio dominante di questa operazione: la Costituzione non dà a chi governa gli strumenti per farlo. Non è vero. Gli strumenti ci sono, è la politica a fare cilecca. Il Pd guardi dentro sé stesso: la caduta del primo governo Prodi nel 1998 era colpa della Costituzione o della insipienza delittuosa del centrosinistra?
L'opposizione nel Comitato e in aula non ha i numeri sufficienti. I parlamentari del Pd di buona volontà facciano mancare i due terzi che escludono il ricorso al referendum. È essenziale che la libera cittadinanza riprenda la parola e si faccia sentire da lunedì prossimo. Prepariamo presidi umani di fronte alle sedi parlamentari in cui si prepara lo sfregio alla Carta. Prepariamo una manifestazione nazionale e una staffetta di scioperi della fame in contemporanea con la discussione in aula. Ricordiamo ai parlamentari che se la Consulta dovesse stabilire l'incostituzionalità della legge con cui sono stati eletti essi non hanno alcuna legittimità per toccare la Costituzione.

 

giovedì 4 luglio 2013

POLITICA- COSTITUZIONE - Giusto l'appello alla trasparenza dei lavori della Commissione

 
Giusto l'appello alla trasparenza dei lavori della commissione, ma è chiaro che al governo non conviene ( Massimo Villone - Il Manifesto 4/7/13)
È molto opportuno che - come leggiamo su queste pagine - si avvii una protesta contro il metodo seguito nel lavoro dei saggi chiamati, in ipotesi, a fornire al governo lumi in tema di riforme. Se la chiarezza viene dalla trasparenza e dalla conoscibilità, allora siamo nella notte più fonda.
Per il costituzionalismo vicino a noi è davvero la prima volta che una riflessione volta a una grande riforma viene sostanzialmente secretata. Del lavoro dei saggi nulla si sa: né chi ha parlato, né cosa si è detto. Non esistono verbali, resoconti, comunicati stampa. Tanto meno dirette radio o tv, presenza di pubblico o di giornalisti. I saggi potrebbero discutere del campionato di calcio o del sesso degli angeli e sarebbe lo stesso. Un metodo già inaccettabile anche se si trattasse di una bocciofila o del club del vino.
Un tempo, forse, quando i sovrani concedevano più o meno volentieri uno statuto ai propri sudditi - le costituzioni ottriate, nel gergo dei costituzionalisti - si poteva ritenere accettabile che la costituzione fosse scritta dai consiglieri del principe in qualche stanza ben chiusa. Ma è impensabile che ciò accada oggi, nel tempo della partecipazione democratica e di internet.
Eppure, accade. Perché? È chiaro che sarebbe facile assicurare la presenza di qualche stenografo - tra palazzo Chigi e le camere ce ne sono di bravissimi - e la pubblicazione immediata del resoconto, parola per parola. Da anni camera e senato assicurano la pubblicazione dei resoconti stenografici di Aula nel corso della stessa seduta, e lo stenografico di ogni audizione o partecipazione di esperti ai lavori parlamentari. Se gli stessi saggi fossero ascoltati in parlamento sugli stessi temi, conosceremmo ogni loro parola, ogni replica, ogni risposta a qualsivoglia domanda o contestazione. Le posizioni assunte sarebbero assoggettate al vaglio della pubblica opinione, e al giudizio dei loro pari, che di ogni saggio conoscono vita, morte e miracoli (passati, presenti e futuri).
Tutto questo potrebbe agevolmente essere garantito anche dal governo. Ma è proprio quello che il governo non vuole.
Per il governo, è meglio che il lavoro dei saggi rimanga avvolto nell'oscurità. In questo modo, non contento di avere formato una commissione già orientata per la sua composizione verso soluzioni predeterminate - leggi semipresidenzialismo e dintorni - mantiene le mani libere sul dopo. Non sapendo nulla del dibattito, degli argomenti svolti, del formarsi delle opinioni, dal lavoro dei saggi verranno probabilmente sintetiche indicazioni, presentate come orientamento prevalente. Ma sarà vero? Quali saranno le alternative scartate e perché? Il confronto è stato veramente libero, o il governo ha contribuito a indirizzarlo nel senso ritenuto più congruo per la propria sopravvivenza? Non lo sapremo mai. Eppure, questo sarà il nucleo fondamentale della proposta che il governo porterà in parlamento e che cercherà di imporre alle forze politiche, sotto il manto di un tecnicismo vacuo quanto ingannevole.
Una Costituzione - come ci hanno insegnato i nostri padri - è anzitutto qualcosa in cui un popolo deve potersi riconoscere. Proprio per questo, l'oscurità è il modo peggiore per farla nascere, generando dubbi sulle vere intenzioni e motivazioni di quelli che l'hanno scritta. E dovrebbe riflettere chi oggi parla delle «necessarie riforme». Può darsi che siano necessarie, anche se personalmente non lo credo. Ma se si fanno nel modo sbagliato, saranno certamente inutili.
Quanto al gossip, corre voce che nelle riunioni dei saggi in realtà non si discuta per nulla. Ognuno è ammesso a manifestare il suo pensiero per cinque minuti, in rigoroso ordine alfabetico. Speriamo che non sia vero. Più che saggi, si direbbero coscritti alla leva militare, con il mite Quagliariello nel ruolo del graduato che abbaia ordini alla truppa.
Quagliariello ha precisato che il ministero sta per dotarsi di un sito nel quale saranno pubblicati i verbali dei saggi lavori, escludendo però streaming e dirette. Ricordiamo al ministro che il governo italiano ha già un ottimo portale, nel quale sarebbe stato facilissimo aprire fin dal primo giorno una finestra sui saggi. Quanto ai verbali, gli ricordiamo la differenza tra un resoconto stenografico e un resoconto sommario. Vogliamo quello stenografico. E quanto allo streaming, in un mondo in cui tutti spiano tutti è davvero l'ultimo dei paradossi che i cittadini italiani non possano sapere chi e come scrive la loro nuova costituzione.

 

POLITICA- COSTITUZIONE - Appello ai "saggi": vogliamo sapere.

I lavori della Commissione per le riforme costituzionali proseguono senza che l’opinione pubblica venga in alcun modo informata delle sue discussioni. E’ un metodo inammissibile. In materie come questa, che riguardano il destino della Repubblica, la pretesa dell’assoluta riservatezza confligge con l’esigenza democratica di una apertura che renda possibile un’attenzione vigile e un contributo da parte di tutti i cittadini interessati.
Basterebbe ricordare l’opposta scelta fatta dall’Unione europea per i lavori delle convenzioni alle quali era stata affidata la redazione della Carta dei diritti fondamentali e del Trattato costituzionale. E l’attuale opacità diventa ancora più inaccettabile viste le notizie riguardanti un’ambigua consultazione in Rete alla quale il testo delle riforme dovrebbe poi essere sottoposto che, riserve a parte sulla sua opportunità e le sue modalità, esigerebbe proprio un’ampia, diffusa e continua discussione sul testo sul quale dovrebbe esprimersi i cittadini.
Chiediamo, pertanto, che si provveda immediatamente a restaurare anche in questa materia il rispetto dei principi della democrazia.
Umberto Allegretti (Comitati Dossetti)
Gaetano
Azzariti (Convenzione per la Democrazia costituzionale)
Sandra
Bonsanti (Libertà e Giustizia)
Luigi
Ferrajoli (Comitati Dossetti)
Stefano
Rodotà (Convenzione per la Democrazia costituzionale)
Gustavo
Zagrebelsky (Libertà e Giustizia)

mercoledì 3 luglio 2013

POLITICA - SINISTRA -Loris Caruso - Indifferenti alla crisi della sinistra politica (Il Manifesto del 3-7-13)

Dopo le elezioni di febbraio, si è parlato di tutto tranne che della sinistra radicale. La stessa cosa era successa dopo il 2008. Gran parte dei movimenti e delle associazioni sembrano indifferenti al fatto che esista una rappresentanza politica che ne sostenga le istanze e i valori. Spesso, questa indifferenza, la esibiscono. Proliferano parallelamente tentativi di ricostruzione unitaria, indipendenti e a volte ostili tra loro (Alba, Ross@, il progetto di una "Syriza italiana", ecc.), ciascuno tendente a rappresentarsi come l'unica forma di ricostruzione possibile.
Non è molto lungimirante che movimenti e associazionismo di sinistra si limitino ad osservare con compiacimento la crisi della sinistra politica. Questa crisi ha effetti notevoli anche sull'espansione e sull'efficacia dei movimenti. Da quando in parlamento e nel paese non è più presente una sinistra autonoma, i conflitti hanno assunto una dimensione prevalentemente locale e settoriale. La loro capacità rivendicativa è diventata quasi esclusivamente reattiva e difensiva. Con l'eccezione del movimento per l'acqua pubblica e delle brevi mobilitazioni contro la legge Gelmini, ci sono stati, dal 2008 ad oggi, movimenti sociali di portata nazionale? E, a parte il referendum su acqua e nucleare, quante lotte, proteste e mobilitazioni hanno raggiunto i propri obiettivi? Anche la più straordinaria, forte e radicata protesta locale italiana, quella della Val di Susa, rischia di essere sconfitta. Le numerose mobilitazioni dei lavoratori contro le crisi aziendali rimangono spesso sconnesse una dall'altra. Non avanzano, così, né la visibilità del dramma di una disoccupazione ormai strutturale, né un insieme di rivendicazioni generali che parlino a tutti i settori colpiti dalla crisi. La Fiom da sola, pur provandoci, non riesce a costruire un sistema di alleanze che duri nel tempo.
Si rivela illusoria l'idea che la crisi della sinistra di partito dischiuda le "magnifiche sorti e progressive" della sinistra sociale, aprendo la strada alla moltiplicazione di esperienze di auto-organizzazione che, liberate dall'influsso paralizzante delle burocrazie politiche, trasformino progressivamente e capillarmente la società. Negli ultimi cinque anni non ci sono stati segnali in questo senso. L'indizio più forte sul destino di una società priva di sinistra politica, invece, è quello di una veloce assimilazione della realtà italiana a quella degli Stati Uniti, caratterizzata dalla presenza di una diffusa sinistra di movimento che non scalfisce i luoghi della decisione politica, monopolizzati da un partito unico diviso in due (o più) partiti. Stiamo andando velocemente in questa direzione. E se alle prossime elezioni politiche il campo sarà limitato allo scontro tra un Berlusconi (padre o figlia), Renzi e Grillo (di cui è davvero prematuro decretare il declino), il processo subirà un'ulteriore accelerazione.
È il momento di superare la frattura storica tra partito e movimento. Siamo in una fase di decostruzione-ricostruzione dei soggetti politici e delle strutture istituzionali. La frattura partito/movimento aveva un senso quando esistevano partiti di massa in grado di incanalare istituzionalmente la protesta e le soggettività che esprimeva e, quindi, di egemonizzarle. Per i movimenti era allora vitale mantenere una distanza di sicurezza. Ma oggi è finita la divisione del lavoro per cui i movimenti sollevano domande e i partiti organizzano le risposte. Come giustamente rivendicano, i primi sono in grado di svolgere entrambe le parti del lavoro. C'è bisogno, però, che queste risposte siano dotate di effettività.
L'Italia è tuttora un paese percorso da forme di mobilitazione collettiva ed esperienze di partecipazione dense e innovative. Tra le più importanti emerse ultimamente si possono citare la "Costituente per i beni comuni" e la rete "Per una nuova finanza pubblica". Temi centrali, tentativi originali di costruzione di coalizioni sociali. Ma se lo scenario politico proseguirà nella direzione che si delinea, che possibilità ci sono che una riforma del diritto incentrata sul concetto di beni comuni e un cambiamento delle politiche economiche abbiano luogo? Nessuna.
È necessario che movimenti, coalizioni sociali e campagne di protesta costruiscano un luogo unitario in cui sia possibile elaborare rivendicazioni, programmi e culture politiche condivise, e che su questa base si costruisca un soggetto politico che coniughi il pluralismo e la partecipazione con la necessità di un'iniziativa unitaria e coordinata, che si sperimenti anche nella sfera politico-elettorale.
Tutto ciò che negli ultimi 150 anni è stato "sinistra" è nato dall'incontro tra conflitto, cooperazione sociale e cultura (ideologia) politica. È il momento di provare a riannodare questi tre fili. Non si tratta di trasformare i movimenti in partiti. Si tratta di cogliere il fatto che il partito non sarà più, probabilmente, la forma di organizzazione politica prevalente, e che è necessario inventare una forma di organizzazione che sappia svolgere in modo innovativo le funzioni che erano svolte dai partiti: costruire forme di azione stabili e diffuse su un territorio nazionale; coniugare partecipazione, rappresentanza e decisione. La vittoria di Accorinti a Messina e il buon risultato alle amministrative di coalizioni tra sinistra sociale e sinistra politica, dimostrano che questo è un percorso realizzabile. Se, com'è avvenuto in queste esperienze, c'è qualche partito disposto a partecipare a questi percorsi senza piegarli alle proprie necessità di auto-riproduzione, che senso ha escluderlo a priori? In nome di cosa? Sappiamo bene che, spesso, movimenti e associazioni riproducono al proprio interno i meccanismi e i difetti dei partiti. Le gare di purezza non servono più.
Soprattutto, nella politica contemporanea c'è un vuoto, un mondo sociale che da trent'anni non si traduce in azione politica: questo luogo è la condizione materiale dei ceti popolari, la frattura tra economia e vita. Non solo il lavoro, ma anche la casa, il reddito, la vita collettiva nelle periferie. Spesso nemmeno i movimenti raggiungono questi luoghi e questi soggetti. Il vuoto va colmato con un progetto innovativo che coniughi azione sociale e azione politica, per evitare che continui ad essere coperto dalle illusioni populiste. Si può partire da qui?

lunedì 1 luglio 2013

POLITICA - COSTITUZIONE -Intervento di G. Bachelet al seminario " Cambiare con la Costituzione"

Ho contribuito alla nascita dell’associazione “Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla” (www.salviamolacostituzione.it) e del comitato promotore del referendum che nel 2006, con 6 milioni di voti di scarto, ha bocciato la riforma costituzionale di Berlusconi e soci. Presidente era Scalfaro, portavoce Bassanini, capo del comitato scientifico Elia. Io ero solo tesoriere, un ragazzo di bottega. Non sono un costituzionalista e non ripeterò quanto detto il 4 giugno scorso alla direzione nazionale del PD (www.giovannibachelet.it/pag1vekkia/direzionePD_040613.pdf); mi limito a riflessioni legate al referendum e alla mia recente esperienza parlamentare.
1. Il disegno di legge costituzionale governativo (http://www.palazzochigi.it/backofGice/
allegati/71499-­‐8731.pdf) oggi in discussione non riguarda il merito delle riforme costituzionali (forma parlamentare, presidenziale, etc.), ma solo l'istituzione della commissione bicamerale e la corrispondente deroga all’articolo 138.
2. L’iter di questo disegno di legge è, quindi, regolato dall’attuale articolo 138: se in seconda votazione questa legge costituzionale non passa con i 2/3 degli aventi diritto, potrà essere sottoposta a referendum prima di ogni discussione di merito sulle riforme.
3. L’iter di questo disegno di legge è appena cominciato e (sempre grazie all’articolo 138) prima di fine novembre non potrà concludersi, anche procedendo a tappe forzate.
4. Il termine di 18 mesi di cui tanto si parla partirebbe dopo l’approvazione finale di questa legge, dunque non prima di novembre.
5. La commissione dei 35 esperti è perciò una (rispettabile) esercitazione governativa: essa non può interagire con la commissione bicamerale sulle riforme costituzionali per l’ottimo motivo che quest’ultima non è ancora istituita, né lo sarà prima di novembre.
6. Sul vistoso gap fra questo disegno di legge costituzionale e la lettera e lo spirito della Costituzione (iniziativa governativa anziché parlamentare, previsto dimezzamento dei tempi, revisione globale dei Titoli I, II, III e V...) rimando alla recente audizione del nuovo presidente dell’associazione, professor Pace (http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documento_evento_procedura_commissione/
Giles/000/000/202/Prof._PACE.pdf).
Pongo qui questioni politiche-­‐parlamentari:
a. all’audizione del Senato il professor Pace ha spiegato scientificamente perché le bicamerali 1993 e 1997 sono cattivi precedenti, ma vale la pena anche di ricordare come mai, storicamente, nessuna delle due concluse i propri lavori: la commissione del 1993 per interruzione anticipata della legislatura, quella del 1997 perché Berlusconi rovesciò il tavolo; la domanda è: quale delle due cose accadrà stavolta?
b. l’articolo 2 affida alla commissione bicamerale anche "coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali": pur di non far cadere il governo, anche la legge elettorale il PD la farà solo con Berlusconi? senza SeL? senza grillini? e poi: per coerenza con le riforme costituzionali, il PD aspetterà la fine del loro (lungo) iter a rischio di votare ancora con il Porcellum, che (come si vede!) non garantisce né rappresentanza né governo? la legge elettorale non era la cosa piú urgente?
c. in realtà esistono anche riforme costituzionali urgenti, condivise, puntuali (altri relatori
oggi ne parlano), fattibili con il semplice 138, come avvenne per la riforma del Titolo V, confermata dal referendum 2001 con 5 milioni di voti di scarto; oggi ad esempio, senza
derogare al 138, l’abolizione di una Camera (che riduce tempi legislativi e numero dei parlamentari) si potrebbe in teoria approvare in 6 mesi
d. le procedure di revisione globale non sono previste dalla Costituzione (vedi
http://salviamolacostituzione.wordpress.com/2012/06/20/riforma-­‐della-­‐costituzione-­‐contrarieta-­‐alle-­‐proposte-­‐presentate/); che il governo le approvi tagliando fuori l’opposizione è ancora piú grave; gravissimo sarebbe, a questo punto, impedire anche la controprova popolare del referendum: possibile che si arrivi a questo?
e. è possibile arrivarci, sí, ma al Senato con margine abbastanza stretto: qui la soglia dei 2/3 degli aventi diritto è 212; il plenum dell’attuale maggioranza è 234; nel PD e in Scelta Civica, lo vediamo dai relatori di questo seminario e dai Firmatari del documento di Franco Monaco
(http://www.democraticidavvero.it/adon.pl?act=doc&doc=13002), si è aperta una prima crepa: gli “obiettori di coscienza” avranno il coraggio di perseverare, coagulando ulteriore dissenso rispetto a questa bicamerale governativa, oppure si sono salvati l’anima ma poi, al momento buono, voteranno come tutti gli altri?
7. Rileggo un antico giudizio di Paolo Sylos Labini sulla tentata revisione costituzionale del 1997: "La legittimazione politica scattò automaticamente quando fu varata la Bicamerale: non era possibile combattere Berlusconi avendolo come partner per riformare, niente meno, che la Costituzione..." Vengono in mente due differenze rispetto all’oggi: a quell'epoca (a) parlavamo “solo” di corruzione giudiziaria, frodi, conflitti di interesse e par condicio, mentre adesso parliamo anche di Mubarak, e (b) Berlusconi era all'opposizione, non al governo
insieme ad alcuni di noi.
8. Tuttavia, di fronte alla drammatica crisi economica e di rappresentanza politica, non si possono liquidare, come qualcuno è tentato di fare, le inquietanti somiglianze fra la Francia del 1958 e l’Italia di oggi. Diciamo, dunque, no all’immobilismo costituzionale ed elettorale. Però diciamo un netto no anche al cinismo degli apprendisti stregoni, al furore riformatore di chi da un lato finge di non conoscere i saldi principi del campione di libertà e giustizia insieme
al quale dovremmo riformare la Costituzione; dall’altro dimentica che nemmeno la piú sconvolgente svolta istituzionale della storia recente, la fine dell’URSS, ha impedito a Eltsin, ex sindaco comunista di Mosca, e a ruota a Putin, ex capo dei servizi segreti sovietici, di restare a cavallo (e che cavallo): a riprova che, in assenza di una forte leadership democratica pronta a subentrare, nessun abracadabra costituzionale è in grado, da solo, di produrre l’agognato rinnovamento della politica (e purtroppo se Arcore non è certo Colombey-­‐ les-­‐Deux-­‐Eglises, abbiamo già visto che nemmeno Bettola o Firenze lo sono).
9. Non sono piú in Parlamento e non invidio chi ci sta oggi. Sono però tuttora tesoriere dell'associazione "Salviamo la Costituzione"; siamo pronti a impegnarci in un altro referendum, purché un sufficiente numero di Senatori si metta la mano sulla coscienza e ci consenta di farlo.
10.Questa battaglia sarà durissima, molto piú dura che nel 2005-­‐2006, quando, dopo un attimo di iniziale esitazione, il centrosinistra si schierò compatto contro le riforme costituzionali di Berlusconi, Fini, Bossi e Casini. Invece oggi, o almeno per il momento, il pezzo piú grosso della sinistra parlamentare è favorevole. Per vincere anche stavolta, prima in Parlamento e poi se necessario nel Paese, sembra prudente restare fedeli a Scalfaro ed Elia. Ovvero. Coltivare uno stile di rigore, serenità e massima apertura verso chiunque ami la Costituzione.
Creare un fronte il piú possibile ampio e robusto. Non crogiolarsi nel gruppetto perdente e minoritario che strilla contro ogni riforma, spara sui politici della propria metà campo e rimpiange i vecchi partiti e il proporzionale puro, senza ricordare che la degenerazione finale di quel sistema elettorale ci ha regalato il CAF, l’odierna voragine del debito pubblico, l’impero mediatico senza regole e senza concorrenza di Silvio Berlusconi; mentre, dopo quarant’anni di “conventio ad excludendum”, è stato proprio il sistema elettorale maggioritario, con Prodi,
a riportare un paio di volte l’intera sinistra al governo del Paese. Il titolo di questo incontro e le diverse provenienze politiche dei partecipanti, da Scelta Civica a SeL, suggeriscono che siamo sulla buona strada.
[Intervento di Giovanni Bachelet al seminario “Cambiare con la Costituzione”,
Roma 25/6/2013]

{ Pubblicato il: 01.07.2013 }



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POLITICA - ISTITUZIONI - Le norme della Costituente sulla ineleggibilità parlamentare ( da Il lunedì della critica)

Svolta e rimozione: le norme della Costituente sull'ineleggibilità parlamentare  - di Giovanni Incorvati
 Intendo chiarire una questione su cui sicuramente poco si è voluto riflettere, ma di cui forse non si  parlerà mai abbastanza. Essa riguarda le norme che stabiliscono le cause di ineleggibilità dei candidati al Parlamento, e in particolare le cause di ineleggibilità legate a situazioni economiche.
L’articolo 10 del d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (“Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati”) stabilisce tra l’altro che non sono eleggibili coloro che “in proprio” risultino vincolati con lo Stato per concessioni di notevole entità economica. In applicazione di questa norma la Giunta delle elezioni della Camera, che conta 30 componenti, si è pronunciata tre volte, in tre diverse legislature, sui reclami presentati contro l’elezione di Berlusconi in quanto beneficiario di concessioni radiotelevisive di prima grandezza.
Vincolati in nome proprio?
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La prima volta, nel 1994 (12. legislatura), la Giunta, presieduta da un componente della maggioranza (contro la prassi che la vuole assegnata a un deputato dell’opposizione), rigettò i ricorsi con un solo voto contrario, quello di Luigi Saraceni (del gruppo dei progressisti federativi, ossia Pds e alleati). Degli altri rappresentanti dell’opposizione, Antonio Soda (progressisti federativi) si schierò contro l’ineleggibilità, insieme con la maggioranza. Per il resto Alfonso Pecoraro Scanio e Francesco La Saponara (entrambi del gruppo progressista federativo, il primo anche vice-presidente della Giunta) si limitarono a avanzare “perplessità sulla legislazione vigente in materia di ineleggibilità”, mentre i rimanenti, ossia i due del gruppo Rifondazione comunista-progressisti, gli ultimi due di quello progressista federativo e i due dei democratici, non si sa se preferirono rimanere silenti o assenti.
Nel 1996 (13. legislatura) la nuova Giunta, questa volta a maggioranza di centrosinistra, si pronunciò di nuovo per la “manifesta infondatezza” dei ricorsi e per l'eleggibilità di Berlusconi (p. 10-12 del resoconto). I due componenti di Rifondazione Comunista, Maria Carazzi e Angelo Muzio, si opposero blandamente (in quanto prima bisognava ragionare sulla locuzione “in proprio” contenuta nell’articolo di legge e distinguere tra le diverse situazioni), e comunque le loro voci risultarono debolissime e assolutamente non raccolte per le dovute conseguenze, né dal partito, né dal resto della "sinistra", invischiata anch'essa in simili conflitti.
Lo stesso Massimo D’Alema, che nel 1994, all’epoca della prima decisione, era segretario del Pds, si ostinò nel 2001 a negare la realtà dei fatti (in tale seduta - scrisse su "l'Unità" in una sua lettera - “i deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti”). Tuttavia subito dopo nel 2002 (14. legislatura) la Giunta, presieduta da Antonello Soro del gruppo della Margherita, e composta tra gli altri da sette deputati dei DS, tre della Margherita, e uno ciascuno dei Comunisti Italiani, dei Verdi e degli Ecologisti Democratici, archiviò di nuovo, come nelle due occasioni precedenti, i reclami, “ritenendoli infondati”, ma questa volta all’unanimità (p. 9-11 del resoconto).
In nessuno di tali casi perciò la discussione approdò in Assemblea, come pure previsto dal regolamento. Quel che più conta è che, contro una prassi consolidata, solo un estratto succinto e del tutto insufficiente dei loro verbali è stato reso pubblico. L’unica motivazione che ancora oggi risulta giustificare le decisioni di rigetto è quella iniziale del 1994, resa nota, in forma lapidaria, solo nel 1996 dal successivo presidente della Giunta: la quale Giunta, nel prenderne nota, la faceva propria.
Secondo la motivazione così riportata (p. 10 del resoconto), nell'articolo 10 del testo unico “l'inciso «in proprio» doveva intendersi «in nome proprio», e quindi non applicabile all'onorevole Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni radiotelevisive in nome proprio e che la sua posizione era riferibile alla società interessata solo a mezzo di rapporti di azionariato”. Infatti, si aggiungeva, “l'espressione «in proprio», di cui alla norma di legge, non si riferisce al fenomeno delle società e tantomeno può essere richiamato nei casi di partecipazioni azionarie indirette”.
Tale interpretazione della norma è stata poi ripresa e accettata pedissequamente fino a oggi, anche da giuristi influenti, a parte il caso del magistrato di Cassazione Vincenzo Marinelli, in particolare nel corso della manifestazione a Roma del 23 marzo 2013 (h. 18:34). Questi ha mostrato come la riduzione della locuzione “in proprio” all’altra “in nome proprio” sia del tutto abusiva, anche perché, se si fosse voluto introdurre una restrizione in tal senso, non si vede perché il legislatore non avrebbe dovuto usare la seconda formula. Ma vale la pena approfondire.
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Personalmente vincolati
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La via migliore per capire il significato dell'espressione in proprio rimane sempre quella di consultare l'autorevole parere di chi l'ha scritta, ossia l'Assemblea Costituente, anche se questa strada non è stata mai battuta nemmeno dagli specialisti. Prima però occorre risalire più indietro nel tempo, agli albori dell’Italia unita, quando per la prima volta si era cominciato a parlare di ineleggibilità politica per motivi economici. Già nel 1862 lo scandalo della Società delle ferrovie meridionali, titolare di una importante concessione dello Stato, aveva posto al centro dell’attenzione il fatto che 14 membri del consiglio di amministrazione e diversi azionisti della società si erano fatti eleggere come deputati al fine di favorire politicamente la società stessa.
La relazione del 15 luglio 1864 dell’apposita commissione d’inchiesta della Camera aveva quindi proposto di “stabilire per legge le incompatibilità delle funzioni di deputato colle funzioni di amministratore di imprese sovvenute dallo Stato e con qualunque altra ingerenza che implichi conflitto col pubblico interesse”. Ma poi la legge 13 maggio 1877 n. 3830 "Sulle incompatibilità parlamentari” all’art. 4 dichiarerà non eleggibili in fatto di concessioni solo “coloro i quali siano personalmente vincolati collo Stato”. In tal modo si restringeva il campo di applicazione della norma a coloro che erano titolari di concessioni “in nome proprio” e si escludeva ogni “altra ingerenza”.
Tale formulazione si trasmise inalterata alle leggi elettorali successive, compresa quella del 1919. Il fascismo, portando a compimento il sistema maggioritario della legge Acerbo, oltre a abolire, con legge 17 maggio 1928 n. 1019 "Riforma della rappresentanza politica", la facoltà per gli elettori di scegliere i candidati proposti dalla lista o dalle altre liste di regime (articoli 6 e 9), eliminò anche qualsiasi limite alla eleggibilità politica (art. 11). Veniva portato così a regime e fatto prosperare quel circolo vizioso affaristico-istituzionale di cui il sistema di ineleggibilità meramente formale dell’Italia post-unitaria aveva costituito una delle basi più solide.
Era proprio questo circolo che, con la fine del regime fascista e con l’elezione dell’Assemblea Costituente, si volle sradicare dando l’avvio a un sistema del tutto opposto.  I primi passi in direzione di un simile circolo virtuoso sarebbero stati mossi con la nuova legge elettorale della Costituente, con la composizione stessa di tale assemblea, con le prime pronunce della Giunta delle elezioni, e con la discussione e il varo di una legge per l’elezione dei futuri parlamenti. Per questo motivo i cambiamenti che furono apportati alla legislazione pre-fascista, in particolare in tema di ineleggibilità, non furono “assai marginali”, come ritiene un’opinione corrente in materia.
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Cambiamenti non marginali
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L'art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 1946, n. 74 “Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea Costituente”, utilizzando la formula: "Non sono eleggibili coloro che siano vincolati con lo Stato per concessioni”, riprendeva apparentemente la vecchia norma. In realtà con una mossa strategica introduceva un’innovazione decisiva. Con l’eliminazione dell’avverbio “personalmente” essa includeva anche vincoli di tipo indiretto, non ad personam. Esponendo le ragioni di tale emendamento alla Consulta Nazionale, Amedeo Moscati, del gruppo liberale, chiarì che con esso si “voleva che tutti coloro che avessero una carica eminente nelle funzioni dello Stato non avessero con lo Stato rapporti di interessi che potevano dar luogo a sospetti” (seduta del 19 febbraio 1946, p. 817-818 del resoconto). Attraverso questo decreto legislativo (quello stesso che introduceva per la prima volta il voto femminile) il sistema elettorale di riferimento veniva a mutare in modo radicale.
La linea che si intendeva seguire venne poi esplicitata, tra il settembre e il dicembre 1946, dalla Giunta delle elezioni della Costituente al momento di affrontare il primo ricorso della nostra storia repubblicana - un episodio centrale che rivela la qualità di quella assemblea e che la stacca da tutte quelle che le sono succedute. Si trattava di esaminare la posizione dell’ingegnere Guglielmo Visocchi, come eletto all’Assemblea per l’Unione Democratica Nazionale nella Circoscrizione di Roma. Questi da una parte si era trovato a godere di concessioni per l’utilizzazione di cospicue quantità di acque pubbliche a fini idroelettrici, che poi aveva ceduto a una società anonima (o per azioni) di cui era socio, e dall'altra parte era presidente e azionista per la metà del capitale di una società anonima titolare di una concessione per lo sfruttamento di una miniera di manganese.
La Giunta incaricò il proprio vicepresidente Ruggero Grieco, che ricopriva anche il ruolo di vicepresidente del gruppo comunista, di svolgere in Assemblea la relazione nel merito. In essa Grieco fece risaltare il fatto che “questa società (a cui l’ingegnere Visocchi chiese che fosse intestata la concessione e che egli costituì appositamente a quel fine, sottoscrivendo metà del capitale e riservandosi la carica di presidente) è stato semplicemente un mezzo per sfruttare più comodamente la miniera”. Visocchi insomma aveva disposto le cose in modo che tale società figurasse come la “titolare formale [sottolineato nell’originale] di un affare sostanzialmente suo.” Di qui la conclusione di Grieco: “i molteplici rapporti di concessioni statali in cui l’ingegnere Visocchi entra, o in una veste o in un’altra, dimostrano quanto siano estesi gli interessi personali del Visocchi, in contrasto con quelli dello Stato”, e quindi la fondatezza di una pronuncia di ineleggibilità. Infine lo stesso Grieco confutava la tesi di una presunta abrogazione per desuetudine di una norma che nella prassi parlamentare del passato non aveva trovato applicazione: “nessuno vorrà sostenere che l’efficacia di una norma imperativa di diritto venga meno soltanto perché in una o più occasioni non è stata osservata.”
Nel corso della discussione in Assemblea si sottolineò come l’articolo 11 della legge elettorale mirasse appunto a spezzare il circolo vizioso che aveva portato al fascismo e che lo aveva alimentato. In nessun modo il socio di una società in nome collettivo avrebbe più potuto “farsi schermo della teorica distinzione fra le persone fisiche dei soci e la personalità giuridica della società” (Enrico Molè, p. 808 del resoconto). Per questi motivi l'Assemblea confermò l'ineleggibilità di Visocchi.
Tuttavia la norma di legge, così come era formulata, appariva incompleta e prestava il fianco a interpretazioni cavillose. Perciò Sandro Pertini, come relatore della Giunta in un'altra seduta, sollecitò l'approvazione di "una nuova legge elettorale più drastica in questa materia": occorre - concluse - rendere "ineleggibile chiunque sia vincolato da interessi con lo Stato” (p. 2 del resoconto). Aderendo a tale invito e per sventare il tentativo del governo di reintrodurre l'avverbio "personalmente" nella formulazione della norma sull'incompatibilità in materia di concessioni (art. 15 del suo d.d.l.), la Costituente dette l'incarico a una commissione apposita di redigere un nuovo disegno di legge per l'elezione della Camera da applicarsi poi anche al Senato, d.d.l. il cui articolo 2-quinquies che qui interessa fu discusso e approvato nella seduta del 16 dicembre 1947 (p. 3254 del resoconto).
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Vincolati nel proprio interesse economico
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In generale, sia la Commissione che l'Assemblea ritenevano acquisito il principio che era stato fatto proprio dalla Giunta delle elezioni secondo cui, nell’esaminare la posizione delle persone, non ci si deve arrestare al livello formale dei rapporti. Ciò che rileva è in primo luogo il rapporto materiale degli interessi, il loro profilo economico sostanziale, che, per poter essere preso in considerazione, deve essere di "notevole entità". Perciò l’avverbio “personalmente” fu cancellato dal lessico dell'ineleggibilità. Al suo posto, con l'inserimento nel nuovo art.  2-quinquies di due frammenti, venne dato rilievo alla tensione che si stabilisce tra il proprio interesse di coloro che hanno rapporti d’affari con lo Stato e il pubblico interesse che dovrebbe essere tutelato da quest’ultimo.
In nessun  momento della discussione risulta che qualcuno dell'Assemblea abbia voluto dare alla locuzione "in proprio", che in tali contesti veniva utilizzata per la prima volta, un senso neanche lontanamente riconducibile a "in nome proprio". Tutto all'opposto, nel corso del dibattito fu sottolineato che, nel caso di concessioni o autorizzazioni di notevole entità economica, a entrare in conflitto con il pubblico interesse non è il nome, ma l’interesse di chi risulta vincolato in proprio (interventi di Umberto Grilli e di Vito Reale, p. 3246 e 3250 del resoconto). La norma presentata riguardava infatti coloro "i quali hanno rapporti di affari di milioni con lo Stato o hanno ottenuto concessioni che fruttano loro milioni" (intervento di Ludovico Sicignano, p. 3244). Come si faceva notare, in tali casi si tratta di impedire "la possibilità che il deputato adoperi, a proprio beneficio o a beneficio della società che rappresenta, la propria influenza" (intervento di  Umberto Nobile, p. 3245).
Fu soprattutto l’intervento di Mauro Scoccimarro, presidente della commissione incaricata del d.d.l. (e, insieme con Grieco, vicepresidente del gruppo comunista), che chiarì il pensiero comune della Commissione e indicò nell'ineleggibilità fondata su un legittimo sospetto il principio generale a cui il disegno di legge si ispirava: “quando l’esercizio, l’uso od usufrutto di determinate concessioni od autorizzazioni possono far nascere il legittimo sospetto che servono a conquistare posizioni elettorali che altrimenti non si conquisterebbero, allora si afferma un principio di ineleggibilità.” Ma tale principio si afferma attraverso la duplice valutazione dell’esistenza di fatto e dell'entità economica dei vincoli e dei relativi obblighi, indipendentemente dalla loro formulazione giuridica:
"non si possono avere rapporti di affari con lo Stato che importano miliardi, qualunque sia la formula giuridica del rapporto, e sedere in quest'Aula! (...) Gli affaristi facciano pure i loro affari ma non pretendano di assumere anche il compito della direzione della cosa pubblica. Non mescoliamo le due cose, come troppo ha fatto il fascismo, e come taluni, pare, pensano di continuare a fare anche oggi, continuando così il costume fascista."
Per questo occorreva considerare il fascismo come un fenomeno di più lunga durata rispetto a quanto si riteneva abitualmente, il cui nucleo più forte era dato dal nesso economico-istituzionale: “dopo venticinque anni di fascismo durante i quali in quest’Aula hanno seduto i più loschi affaristi (…) c’è ancora in Italia chi pensa che è possibile servirsi degli affari per conquistare una posizione politica e servirsi poi della conquistata posizione politica per potenziare i propri affari” (p. 3247 del resoconto).
La nuova norma, nella formulazione approvata dalla Costituente e senza essere più cambiata, entrò prima nella legge 20 gennaio 1948 n. 6 (art. 7), poi nel d.p.r. 5 febbraio 1948, n. 26 "Testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati" (art. 8), e infine nel d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (art. 10). Quello che invece venne a modificarsi fu l'atteggiamento delle forze parlamentari, in particolare di quelle formalmente d'opposizione: una causa essenziale dell'involuzione successiva, così vistosa nell'ultimo ventennio.

[L'edizione integrale di questo saggio sarà pubblicata  nel prossimo numero del mensile "Critica liberale"]

{ Pubblicato il: 01.07.2013 }



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