martedì 30 luglio 2013

SCUOLA - I ricorsi contro i tagli alla Gelmini

La contestazione dei tagli della Gelmini: il ricorso al TAR e le precedenti sentenze, non attuate,del TAR e del CdS, l'interrogazione parlamentare dei parlamentari di SEL e del MS, l'acquiescenza delle Regioni di centro- sinistra, l'intervento ad adiuvandum del Comune di Palermo e la risposta , quanto meno, singolare di un anonimo sottosegretario. Che fare? L'antefatto I ricorsi al TAR contro i tagli agli organici operati dalla Gelmini furono promossi nel contesto di una più generale lotta di studenti, genitori e personale della scuola contro i provvedimenti del Governo Berlusconi- Gelmini che prevedevano tagli per oltre 8 miliardi per la scuola; la Gelmini riuscì a violare le stesse norme che prevedevano tali tagli;a fronte di tali irregolarità ,i Comitati locali dell' Ass. Per la scuola della Repubblica ritennero opportuno approfittare delle irregolarità dei provvedimenti della Gelmini per sostenere, anche con le iniziative legali, le contestazioni politiche contro i tagli agli organici. Per effetto di tali ricorsi i decreti Interministeriali che stabilivano i criteri per la determinazione degli organici ( e cioè dei tagli) per gli aa.ss. 2009-10 e 2010-11 furono dichiarati illegittimi sia dal TAR del Lazio che dal CdS; di conseguenza tutti i provvedimenti attuativi di tali decreti , dichiarati illegittimi,erano ovviamente anche essi illegittimi per illegittimità derivata ( il sottosegretario che ha risposto all'interrogazione dei parlamentari di SEL e M5S ignora tale principio elementare del diritto , ma anche del buon senso). Nessuno però si è attivato per chiedere l'attuazione delle sentenze del TAR e del CdS e per rimettere in discussione detti tagli: nè le Regioni di centro-sinistra ( che peraltro erano state inutilmente e reipetutamente sollecitate ad intervenire in giudizio a sostegno dei ricorsi), nè le forze politiche che avevano contestato, a livello politico, i tagli, ma nemmeno le organizzazioni dei genitori, degli studenti e degli stessi docenti. L'udienza del TAR per gli organici del 2011-12 e l'appello del Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione a sostegno del ricorso. Anche gli organici del 2011-12 furono tempestivamente inpugnati ed anche in tale circostanza le Regioni di centro-sinistra furono inutilmente sollecitate ad intervenire;in vista dell'udienza, in precedenza, fissata dal TAR per il 5 luglio scorso, fu ancora una volta rinnovato l'appello per sollecitare l'intervento in giudizio delle Regioni che ai fini del giudizio è divenuto determinante; difatti dagli atti depositati al TAR è risultato che la Conferenza Unificata Stato Regione ed Enti Locali , a seguito della richiesta di parere da parte della Gelmini,aveva chiesto di avviare un tavolo di confronto, dalla Gelmini rifiutato. Le Regioni quindi, a fronte di tale sostanziale rifiuto della Gelmini, potevano ( e possono ancora) fondatamente intervenire in giudizio per contestare l'operato della Gelmini, così come la nuova Ministra, essendo gli organici 2011-12 ancora subjudice, avrebbe potuto ritirare il decreto della Gelmini ed aprire con la Conferenza Unificata quel tavolo di confronto che la Gelmini aveva rifiutato. La Ministra e le Regioni accettano i tagli della Gelmini ; il Comune di Palermo ed i parlamentari di SEL e del M5S del Senato accolgono l'appello del Coordinamento Nazionale La Ministra Carrozza , sollecitata dal Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione a ritirare il decreto, ha mantenuto di fatto i tagli della Gelmini che però sono sub judice; le Regioni hanno fatto acquiescenza al rifiuto della Gelmini e di conseguenza anche ai tagli operati dalla Gelmini.. All' appello del Coordinamento Nazionale per la Scuola della Costituzione hanno risposto finora soltanto il Comune di Palermo che è intervenuto in giudizio a sostegno del ricorso e i parlamentari di SEL e M5S del Senato che hanno presentato una interrogazione urgente al MInistro. Riportiamo integralmente il testo di una risposta di un non identificato Sottosegretario: DI SEGUITO: "RIGUARDO ALLE RIDUZIONI DI ORGANICO RELATIVE AGLI ANNI SCOLASTICI 2009/2010, 2010/2011 E 2011/2012, NON RISULTA CHE NE IL TAR, NE' IL CONSIGLIO DI STATO LE ABBIANO DICHIARATE ILLEGITTIME. IL TAR DEL LAZIO HA ANNULLATO I RELATIVI DECRETI INTERMINISTERIALI PERCHÉ HA RITENUTO CHE NON FOSSERO STATI PREVIAMENTE SOTTOPOSTI ALLA CONFERENZA UNIFICATA. I Precari si avviano ad una richiesta di autorizzazione di assunzioni per il 2013/2014, con un impegno per riattivazione di un tavolo di confronto con la Conferenza Unificata per l'individuazione di ulteriori criteri e modalità di distribuzione degli organici alla luce delle esigenze del territorio" Ogni commento alla risposta del Sottosegretario ci sembra superflua;Potremmo soltanto consigliare il Sottosegretario di consultare uno studente al 1° anno di giurisprudenza prima di avventurarsi in risposte di cartattere giuridico. Che fare? L'acquiescenza delle Regioni al rifiuto della Gelmini di avviare un tavolo di confronto indebolisce fortemente, sotto il profilo giuridico, il ricorso; l'udienza è fissata per il 21 novembre p.v. ; ha senso portare avanti il ricorso se si verifica almeno una delle due condizioni: 1 - Almeno una Regione intervenga in giudizio a sostegno del ricorso oppure impugni in via autonoma il D.I. che non è stato mai pubblicato in G.U. e quindi può essere ancora tempestivamente impugnato dalle Regioni. 2 . La contestazione dei tagli diventi un impegno politico di massa nelle scuole con una manifestazione nazionale a Roma davanti al MIUR per chiedere, prima dell'udienza, una ridiscussione degli organici. Io penso che, se entro i primi giorni di settembre non si sarà verificata nessuna delle due condizioni, sarà opportuno,sia sotto il profilo politico e giuridico , prendere atto della acquiescenza delle Regioni e quindi considerare cessata ( sotto il profilo giuridico) la materia del contendere . Senza dubbio sarà un'altra occasione persa per mettere concretamente in discussione la politica dei tagli alla scuola della Gelmini e di B.; ma bisogna prendere atto della realtà. Io ho espresso le mie considerazioni; ovviamente sono disponibile al più ampio confronto e penso che ogni decisione finale debba essere meditata e condivisa. A presto. Corrado Mauceri __._,_.___

sabato 6 luglio 2013

POLITICA - COSTITUZIONE- Un uso illegittimo del potere di revisione

Intervista al Prof Alessandro Pace ( a cura di Fabozzi -( Il Manifesto del 6/7/13)
 
«Siamo di fronte a un uso illegittimo del potere di revisione». Sul ddl riforme, in aula al senato da martedì, l'insigne costituzionalista Alessandro Pace mette in guardia contro «la tentazione degli "scambi" tra diverse modifiche costituzionali». «Il presidenzialismo abbassa il tasso di democrazia. Pericoloso che si possa cambiare anche la prima parte».
Alessandro Pace, professore emerito a Roma e costituzionalista insigne, ribalta le accuse di «conservatorismo». Anzi sottolinea che il procedimento di revisione costituzionale serve proprio ad adeguare la costituzione alle mutate esigenze politiche e sociali, «purché però se ne rispettino le regole che, per il nostro ordinamento, sono quelle previste dall'articolo 138, con il limite dell'immodificabilità della forma repubblicana e dei principi costituzionali supremi, tra cui il principio della salvaguardia della rigidità costituzionale, che è il più supremo di tutti».
Questo significa, professore, che non bisogna temere il disegno di legge costituzionale 813 che la prossima settimana arriva all'esame dell'aula del senato?
Al contrario, in questo caso siamo di fronte a un uso illegittimo del potere di revisione. Bisogna considerare che il governo non ha proposto una modifica permanente dell'articolo 138 della Costituzione (il che è possibile, ma alle condizioni che le ho ricordato). Al contrario, dai sostenitori di esso si è detto che è stata prevista una "deroga" una tantum, il che è inesatto. Si ha una deroga quando una norma speciale si sostituisce una tantum a una normativa generale. Ma la così detta norma speciale (e cioè la procedura di revisione prevista del disegno di legge costituzionale 813) non è affatto puntuale e una tantum, perché, all'esito (se cioè l'813 andasse in porto) i cittadini viventi e quelli futuri avrebbero una forma di governo diversa, un bicameralismo diverso e rapporti Stato regioni diversi dagli attuali. Altro che norma una tantum! Il vero è che l'813 determina una illegittima sospensione temporale dell'articolo 138.
A che scopo, secondo lei?
Allo scopo di affrontare non separatamente e specificamente le singole leggi di revisione come i costituenti previdero nella loro saggezza, ma di discutere insieme i vari progetti, esaltandone l'interdipendenza e favorendo - come già abbiamo visto in passate versioni delle "bicamerali" - la tentazione degli "scambi" tra diverse modifiche costituzionali. Anzi la collocazione della legge elettorale tra le materie di competenza della nuova Bicamerale rappresenta, per gli scambi, il cacio sui maccheroni, avendo essa un significato politico rilevantissimo ancorché distorcente nell'ottica delle riforme costituzionali. Si ha un bel dire che l'813 prevede che i disegni di legge debbano essere formalmente autonomi e omogenei. Questo infatti non esclude l'interdipendenza delle soluzioni.
Ha anticipato una risposta alle sue obiezioni: proprio lei ha sempre insistito sulla necessità di riforme omogenee e adesso che il governo ha recepito questa raccomandazione non è soddisfatto?
Intanto ho pubblicamente riconosciuto che prevedere esplicitamente più leggi differenziate per argomento è stato un passo in avanti. Ma non posso non riflettere sul fatto che si tratta di argomenti assai ampi. Ognuno dei quattro titoli della seconda parte della Costituzione ai quali ci si vuole dedicare contiene una quindicina di articoli. L'omogeneità non basta, ci vuole anche la specificità. Mi spiego, prendiamo il bicameralismo. Io potrei essere favorevole alla riduzione dei parlamentari ma non al senato federale. Non mi si può chiedere di pronunciarmi su questi due temi che fanno parte dello stesso titolo con un unico sì o con un unico no.
La versione del governo è che si tratterà di più modifiche della Carta, ma tutte «puntuali».
Quella che viene proposta è in realtà una revisione totale della Costituzione, a mio avviso possibile solo per quelle costituzioni che lo prevedono espressamente. Come la Costituzione svizzera e spagnola, che hanno una procedura diversa, ulteriormente aggravata, per le revisioni totali. Ad esempio impongono che il parlamento venga sciolto e che i cittadini tornino alle urne tra la prima e la seconda lettura in maniera tale da rendere esplicita la clamorosa novità. In Italia questo non è consentito, perché non è previsto esplicitamente.
In definitiva lei ammette solo revisioni di piccola portata?
Niente affatto, diversamente da molti miei colleghi io penso che la Costituzione possa essere modificata anche con riguardo alla forma di governo. Purché non si incida sul principio intangibile della democrazia. L'articolo 139 ci dice che la forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. Ma quale forma repubblicana? Quella democratica dell'articolo 1. Ne discende che non possono essere consentite modifiche alla forma di governo che comportino una diminuzione della democrazia. E' per questo che non mi sta bene il regime semipresidenziale alla francese. In esso non sono previsti adeguati contropoteri, come osservò benissimo lo stesso presidente Napolitano nel discorso per il sessantesimo della Costituzione che meriterebbe di essere meditato.
Un'ultima domanda, come giudica la soluzione trovata in commissione al senato, per cui il comitato potrà occuparsi anche degli articoli della prima parte della Costituzione per proporre modifiche «strettamente connesse» alla seconda parte?
Non sapevo che fosse stata approvata una modifica così rilevante. A mio modo di vedere è stata così svelata un'ipocrisia, che stava dietro alle affermazioni che la modifica della seconda parte non avrebbe effetti sulla prima, quando il contrario discende dal rilievo elementare che l'operatività concreta dei diritti, di tutti i diritti (si pensi a quello che è successo alla scuola in questi anni...), è condizionata non solo dalla forma di governo ma anche da chi sta al governo. In ogni caso è molto grave che vi sia quest'ulteriore occasione di interdipendenza e, purtroppo, di interscambio.

 

POLITICA-COSTITUZIONE - Presìdi umani contro lo scempio della Costituzione

 
COMMENTO  di  Pancho Pardi  ( dal MANIFESTO del 5/7/13)
 
La legge di modifica costituzionale trattata come ordinaria legge d'urgenza. Fretta e tempi contingentati. Martedì notte in poche ore la Commissione Affari Costituzionali ha licenziato il disegno di legge 813 che istituisce il Comitato di 20 senatori e 20 deputati cui è attribuito il compito di modificare la Costituzione in ben 4 Titoli della seconda parte (I, Il Parlamento; II, Il Presidente della Repubblica; III, Il Governo; V, Le Regioni, le Provincie e i Comuni).
In materia di stretta pertinenza parlamentare, il disegno è di iniziativa del governo. Questo nasceva con scopi limitati e temporanei ma ora detta modi e tempi per cambiare una Costituzione che era stata confermata a larga maggioranza dal popolo nel referendum del 2006. E lo fa con una plateale e molteplice violazione dell'articolo 138, che regola le modifiche costituzionali. La prima violazione è globale. Una coerente giurisprudenza costituzionale ha sancito il principio che le modifiche devono essere di carattere emendativo, puntuali e omogenee. Questo il centrosinistra aveva opposto alla riforma del centrodestra. Ora il Pd tradisce il principio e accetta di discutere modifiche complesse fino al punto di poter cambiare la forma di governo e di Stato. Si rovescia la ratio costituzionale. Finora la revisione costituzionale era subordinata alla Costituzione. Ora si eleva la revisione a prassi dominante sulla Carta.
Il governo non ha il coraggio di cambiare l'art. 138 ma lo deroga. La sede propria della discussione parlamentare sono le Commissioni al completo, ognuna per conto proprio oppure insieme in sede bicamerale. Qui si inventa un comitato bicamerale di commissioni incomplete: 20 senatori e 20 deputati, di cui resta oscuro il criterio di scelta. Il principio di rappresentanza viene alterato: non valgono solo i seggi ma anche i voti ricevuti. Il Pd rinuncia all'effetto del premio di maggioranza alla Camera. Mentre si illude che il fair play possa rabbonire il Caimano trascura il fatto che l'opposizione resta pericolosamente schiacciata. Le Commissioni Affari Costituzionali, si dice, continueranno a lavorare: quando e come? Di fatto, non potendo trattare la vasta materia della revisione costituzionale, sono esautorate dal Comitato dei 40. Ma un punto di gravità oggi incalcolabile è le predeterminazione dei tempi. La volontà del governo, assistita dalla coriacea regia del Quirinale, pretende che tutto sia concluso entro un anno e mezzo. Non solo Commissioni e Aule a passo di carica, con tempi contingentati, come se si trattasse di un decreto legge, ma accorciamento a un mese del periodo di tre messi previsto dalla Costituzione vigente per il secondo passaggio nelle Camere.
Dei temi principali di modifica ci sarà occasione di parlare in modo approfondito, ma un solo accenno basti. Se tutto va come le larghe intese vogliono, con questa procedura da formula 1 potremmo ritrovarci in una repubblica presidenziale, in cui per la stessa fretta non si sarà neanche trovato il modo di impedire che il presidente sia il proprietario delle televisioni private e dominatore di quelle pubbliche.
È ora necessaria un'energica ripresa dell'iniziativa popolare. Bisogna contrastare in tutte le sedi il principio dominante di questa operazione: la Costituzione non dà a chi governa gli strumenti per farlo. Non è vero. Gli strumenti ci sono, è la politica a fare cilecca. Il Pd guardi dentro sé stesso: la caduta del primo governo Prodi nel 1998 era colpa della Costituzione o della insipienza delittuosa del centrosinistra?
L'opposizione nel Comitato e in aula non ha i numeri sufficienti. I parlamentari del Pd di buona volontà facciano mancare i due terzi che escludono il ricorso al referendum. È essenziale che la libera cittadinanza riprenda la parola e si faccia sentire da lunedì prossimo. Prepariamo presidi umani di fronte alle sedi parlamentari in cui si prepara lo sfregio alla Carta. Prepariamo una manifestazione nazionale e una staffetta di scioperi della fame in contemporanea con la discussione in aula. Ricordiamo ai parlamentari che se la Consulta dovesse stabilire l'incostituzionalità della legge con cui sono stati eletti essi non hanno alcuna legittimità per toccare la Costituzione.

 

giovedì 4 luglio 2013

POLITICA- COSTITUZIONE - Giusto l'appello alla trasparenza dei lavori della Commissione

 
Giusto l'appello alla trasparenza dei lavori della commissione, ma è chiaro che al governo non conviene ( Massimo Villone - Il Manifesto 4/7/13)
È molto opportuno che - come leggiamo su queste pagine - si avvii una protesta contro il metodo seguito nel lavoro dei saggi chiamati, in ipotesi, a fornire al governo lumi in tema di riforme. Se la chiarezza viene dalla trasparenza e dalla conoscibilità, allora siamo nella notte più fonda.
Per il costituzionalismo vicino a noi è davvero la prima volta che una riflessione volta a una grande riforma viene sostanzialmente secretata. Del lavoro dei saggi nulla si sa: né chi ha parlato, né cosa si è detto. Non esistono verbali, resoconti, comunicati stampa. Tanto meno dirette radio o tv, presenza di pubblico o di giornalisti. I saggi potrebbero discutere del campionato di calcio o del sesso degli angeli e sarebbe lo stesso. Un metodo già inaccettabile anche se si trattasse di una bocciofila o del club del vino.
Un tempo, forse, quando i sovrani concedevano più o meno volentieri uno statuto ai propri sudditi - le costituzioni ottriate, nel gergo dei costituzionalisti - si poteva ritenere accettabile che la costituzione fosse scritta dai consiglieri del principe in qualche stanza ben chiusa. Ma è impensabile che ciò accada oggi, nel tempo della partecipazione democratica e di internet.
Eppure, accade. Perché? È chiaro che sarebbe facile assicurare la presenza di qualche stenografo - tra palazzo Chigi e le camere ce ne sono di bravissimi - e la pubblicazione immediata del resoconto, parola per parola. Da anni camera e senato assicurano la pubblicazione dei resoconti stenografici di Aula nel corso della stessa seduta, e lo stenografico di ogni audizione o partecipazione di esperti ai lavori parlamentari. Se gli stessi saggi fossero ascoltati in parlamento sugli stessi temi, conosceremmo ogni loro parola, ogni replica, ogni risposta a qualsivoglia domanda o contestazione. Le posizioni assunte sarebbero assoggettate al vaglio della pubblica opinione, e al giudizio dei loro pari, che di ogni saggio conoscono vita, morte e miracoli (passati, presenti e futuri).
Tutto questo potrebbe agevolmente essere garantito anche dal governo. Ma è proprio quello che il governo non vuole.
Per il governo, è meglio che il lavoro dei saggi rimanga avvolto nell'oscurità. In questo modo, non contento di avere formato una commissione già orientata per la sua composizione verso soluzioni predeterminate - leggi semipresidenzialismo e dintorni - mantiene le mani libere sul dopo. Non sapendo nulla del dibattito, degli argomenti svolti, del formarsi delle opinioni, dal lavoro dei saggi verranno probabilmente sintetiche indicazioni, presentate come orientamento prevalente. Ma sarà vero? Quali saranno le alternative scartate e perché? Il confronto è stato veramente libero, o il governo ha contribuito a indirizzarlo nel senso ritenuto più congruo per la propria sopravvivenza? Non lo sapremo mai. Eppure, questo sarà il nucleo fondamentale della proposta che il governo porterà in parlamento e che cercherà di imporre alle forze politiche, sotto il manto di un tecnicismo vacuo quanto ingannevole.
Una Costituzione - come ci hanno insegnato i nostri padri - è anzitutto qualcosa in cui un popolo deve potersi riconoscere. Proprio per questo, l'oscurità è il modo peggiore per farla nascere, generando dubbi sulle vere intenzioni e motivazioni di quelli che l'hanno scritta. E dovrebbe riflettere chi oggi parla delle «necessarie riforme». Può darsi che siano necessarie, anche se personalmente non lo credo. Ma se si fanno nel modo sbagliato, saranno certamente inutili.
Quanto al gossip, corre voce che nelle riunioni dei saggi in realtà non si discuta per nulla. Ognuno è ammesso a manifestare il suo pensiero per cinque minuti, in rigoroso ordine alfabetico. Speriamo che non sia vero. Più che saggi, si direbbero coscritti alla leva militare, con il mite Quagliariello nel ruolo del graduato che abbaia ordini alla truppa.
Quagliariello ha precisato che il ministero sta per dotarsi di un sito nel quale saranno pubblicati i verbali dei saggi lavori, escludendo però streaming e dirette. Ricordiamo al ministro che il governo italiano ha già un ottimo portale, nel quale sarebbe stato facilissimo aprire fin dal primo giorno una finestra sui saggi. Quanto ai verbali, gli ricordiamo la differenza tra un resoconto stenografico e un resoconto sommario. Vogliamo quello stenografico. E quanto allo streaming, in un mondo in cui tutti spiano tutti è davvero l'ultimo dei paradossi che i cittadini italiani non possano sapere chi e come scrive la loro nuova costituzione.

 

POLITICA- COSTITUZIONE - Appello ai "saggi": vogliamo sapere.

I lavori della Commissione per le riforme costituzionali proseguono senza che l’opinione pubblica venga in alcun modo informata delle sue discussioni. E’ un metodo inammissibile. In materie come questa, che riguardano il destino della Repubblica, la pretesa dell’assoluta riservatezza confligge con l’esigenza democratica di una apertura che renda possibile un’attenzione vigile e un contributo da parte di tutti i cittadini interessati.
Basterebbe ricordare l’opposta scelta fatta dall’Unione europea per i lavori delle convenzioni alle quali era stata affidata la redazione della Carta dei diritti fondamentali e del Trattato costituzionale. E l’attuale opacità diventa ancora più inaccettabile viste le notizie riguardanti un’ambigua consultazione in Rete alla quale il testo delle riforme dovrebbe poi essere sottoposto che, riserve a parte sulla sua opportunità e le sue modalità, esigerebbe proprio un’ampia, diffusa e continua discussione sul testo sul quale dovrebbe esprimersi i cittadini.
Chiediamo, pertanto, che si provveda immediatamente a restaurare anche in questa materia il rispetto dei principi della democrazia.
Umberto Allegretti (Comitati Dossetti)
Gaetano
Azzariti (Convenzione per la Democrazia costituzionale)
Sandra
Bonsanti (Libertà e Giustizia)
Luigi
Ferrajoli (Comitati Dossetti)
Stefano
Rodotà (Convenzione per la Democrazia costituzionale)
Gustavo
Zagrebelsky (Libertà e Giustizia)

mercoledì 3 luglio 2013

POLITICA - SINISTRA -Loris Caruso - Indifferenti alla crisi della sinistra politica (Il Manifesto del 3-7-13)

Dopo le elezioni di febbraio, si è parlato di tutto tranne che della sinistra radicale. La stessa cosa era successa dopo il 2008. Gran parte dei movimenti e delle associazioni sembrano indifferenti al fatto che esista una rappresentanza politica che ne sostenga le istanze e i valori. Spesso, questa indifferenza, la esibiscono. Proliferano parallelamente tentativi di ricostruzione unitaria, indipendenti e a volte ostili tra loro (Alba, Ross@, il progetto di una "Syriza italiana", ecc.), ciascuno tendente a rappresentarsi come l'unica forma di ricostruzione possibile.
Non è molto lungimirante che movimenti e associazionismo di sinistra si limitino ad osservare con compiacimento la crisi della sinistra politica. Questa crisi ha effetti notevoli anche sull'espansione e sull'efficacia dei movimenti. Da quando in parlamento e nel paese non è più presente una sinistra autonoma, i conflitti hanno assunto una dimensione prevalentemente locale e settoriale. La loro capacità rivendicativa è diventata quasi esclusivamente reattiva e difensiva. Con l'eccezione del movimento per l'acqua pubblica e delle brevi mobilitazioni contro la legge Gelmini, ci sono stati, dal 2008 ad oggi, movimenti sociali di portata nazionale? E, a parte il referendum su acqua e nucleare, quante lotte, proteste e mobilitazioni hanno raggiunto i propri obiettivi? Anche la più straordinaria, forte e radicata protesta locale italiana, quella della Val di Susa, rischia di essere sconfitta. Le numerose mobilitazioni dei lavoratori contro le crisi aziendali rimangono spesso sconnesse una dall'altra. Non avanzano, così, né la visibilità del dramma di una disoccupazione ormai strutturale, né un insieme di rivendicazioni generali che parlino a tutti i settori colpiti dalla crisi. La Fiom da sola, pur provandoci, non riesce a costruire un sistema di alleanze che duri nel tempo.
Si rivela illusoria l'idea che la crisi della sinistra di partito dischiuda le "magnifiche sorti e progressive" della sinistra sociale, aprendo la strada alla moltiplicazione di esperienze di auto-organizzazione che, liberate dall'influsso paralizzante delle burocrazie politiche, trasformino progressivamente e capillarmente la società. Negli ultimi cinque anni non ci sono stati segnali in questo senso. L'indizio più forte sul destino di una società priva di sinistra politica, invece, è quello di una veloce assimilazione della realtà italiana a quella degli Stati Uniti, caratterizzata dalla presenza di una diffusa sinistra di movimento che non scalfisce i luoghi della decisione politica, monopolizzati da un partito unico diviso in due (o più) partiti. Stiamo andando velocemente in questa direzione. E se alle prossime elezioni politiche il campo sarà limitato allo scontro tra un Berlusconi (padre o figlia), Renzi e Grillo (di cui è davvero prematuro decretare il declino), il processo subirà un'ulteriore accelerazione.
È il momento di superare la frattura storica tra partito e movimento. Siamo in una fase di decostruzione-ricostruzione dei soggetti politici e delle strutture istituzionali. La frattura partito/movimento aveva un senso quando esistevano partiti di massa in grado di incanalare istituzionalmente la protesta e le soggettività che esprimeva e, quindi, di egemonizzarle. Per i movimenti era allora vitale mantenere una distanza di sicurezza. Ma oggi è finita la divisione del lavoro per cui i movimenti sollevano domande e i partiti organizzano le risposte. Come giustamente rivendicano, i primi sono in grado di svolgere entrambe le parti del lavoro. C'è bisogno, però, che queste risposte siano dotate di effettività.
L'Italia è tuttora un paese percorso da forme di mobilitazione collettiva ed esperienze di partecipazione dense e innovative. Tra le più importanti emerse ultimamente si possono citare la "Costituente per i beni comuni" e la rete "Per una nuova finanza pubblica". Temi centrali, tentativi originali di costruzione di coalizioni sociali. Ma se lo scenario politico proseguirà nella direzione che si delinea, che possibilità ci sono che una riforma del diritto incentrata sul concetto di beni comuni e un cambiamento delle politiche economiche abbiano luogo? Nessuna.
È necessario che movimenti, coalizioni sociali e campagne di protesta costruiscano un luogo unitario in cui sia possibile elaborare rivendicazioni, programmi e culture politiche condivise, e che su questa base si costruisca un soggetto politico che coniughi il pluralismo e la partecipazione con la necessità di un'iniziativa unitaria e coordinata, che si sperimenti anche nella sfera politico-elettorale.
Tutto ciò che negli ultimi 150 anni è stato "sinistra" è nato dall'incontro tra conflitto, cooperazione sociale e cultura (ideologia) politica. È il momento di provare a riannodare questi tre fili. Non si tratta di trasformare i movimenti in partiti. Si tratta di cogliere il fatto che il partito non sarà più, probabilmente, la forma di organizzazione politica prevalente, e che è necessario inventare una forma di organizzazione che sappia svolgere in modo innovativo le funzioni che erano svolte dai partiti: costruire forme di azione stabili e diffuse su un territorio nazionale; coniugare partecipazione, rappresentanza e decisione. La vittoria di Accorinti a Messina e il buon risultato alle amministrative di coalizioni tra sinistra sociale e sinistra politica, dimostrano che questo è un percorso realizzabile. Se, com'è avvenuto in queste esperienze, c'è qualche partito disposto a partecipare a questi percorsi senza piegarli alle proprie necessità di auto-riproduzione, che senso ha escluderlo a priori? In nome di cosa? Sappiamo bene che, spesso, movimenti e associazioni riproducono al proprio interno i meccanismi e i difetti dei partiti. Le gare di purezza non servono più.
Soprattutto, nella politica contemporanea c'è un vuoto, un mondo sociale che da trent'anni non si traduce in azione politica: questo luogo è la condizione materiale dei ceti popolari, la frattura tra economia e vita. Non solo il lavoro, ma anche la casa, il reddito, la vita collettiva nelle periferie. Spesso nemmeno i movimenti raggiungono questi luoghi e questi soggetti. Il vuoto va colmato con un progetto innovativo che coniughi azione sociale e azione politica, per evitare che continui ad essere coperto dalle illusioni populiste. Si può partire da qui?

lunedì 1 luglio 2013

POLITICA - COSTITUZIONE -Intervento di G. Bachelet al seminario " Cambiare con la Costituzione"

Ho contribuito alla nascita dell’associazione “Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla” (www.salviamolacostituzione.it) e del comitato promotore del referendum che nel 2006, con 6 milioni di voti di scarto, ha bocciato la riforma costituzionale di Berlusconi e soci. Presidente era Scalfaro, portavoce Bassanini, capo del comitato scientifico Elia. Io ero solo tesoriere, un ragazzo di bottega. Non sono un costituzionalista e non ripeterò quanto detto il 4 giugno scorso alla direzione nazionale del PD (www.giovannibachelet.it/pag1vekkia/direzionePD_040613.pdf); mi limito a riflessioni legate al referendum e alla mia recente esperienza parlamentare.
1. Il disegno di legge costituzionale governativo (http://www.palazzochigi.it/backofGice/
allegati/71499-­‐8731.pdf) oggi in discussione non riguarda il merito delle riforme costituzionali (forma parlamentare, presidenziale, etc.), ma solo l'istituzione della commissione bicamerale e la corrispondente deroga all’articolo 138.
2. L’iter di questo disegno di legge è, quindi, regolato dall’attuale articolo 138: se in seconda votazione questa legge costituzionale non passa con i 2/3 degli aventi diritto, potrà essere sottoposta a referendum prima di ogni discussione di merito sulle riforme.
3. L’iter di questo disegno di legge è appena cominciato e (sempre grazie all’articolo 138) prima di fine novembre non potrà concludersi, anche procedendo a tappe forzate.
4. Il termine di 18 mesi di cui tanto si parla partirebbe dopo l’approvazione finale di questa legge, dunque non prima di novembre.
5. La commissione dei 35 esperti è perciò una (rispettabile) esercitazione governativa: essa non può interagire con la commissione bicamerale sulle riforme costituzionali per l’ottimo motivo che quest’ultima non è ancora istituita, né lo sarà prima di novembre.
6. Sul vistoso gap fra questo disegno di legge costituzionale e la lettera e lo spirito della Costituzione (iniziativa governativa anziché parlamentare, previsto dimezzamento dei tempi, revisione globale dei Titoli I, II, III e V...) rimando alla recente audizione del nuovo presidente dell’associazione, professor Pace (http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documento_evento_procedura_commissione/
Giles/000/000/202/Prof._PACE.pdf).
Pongo qui questioni politiche-­‐parlamentari:
a. all’audizione del Senato il professor Pace ha spiegato scientificamente perché le bicamerali 1993 e 1997 sono cattivi precedenti, ma vale la pena anche di ricordare come mai, storicamente, nessuna delle due concluse i propri lavori: la commissione del 1993 per interruzione anticipata della legislatura, quella del 1997 perché Berlusconi rovesciò il tavolo; la domanda è: quale delle due cose accadrà stavolta?
b. l’articolo 2 affida alla commissione bicamerale anche "coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali": pur di non far cadere il governo, anche la legge elettorale il PD la farà solo con Berlusconi? senza SeL? senza grillini? e poi: per coerenza con le riforme costituzionali, il PD aspetterà la fine del loro (lungo) iter a rischio di votare ancora con il Porcellum, che (come si vede!) non garantisce né rappresentanza né governo? la legge elettorale non era la cosa piú urgente?
c. in realtà esistono anche riforme costituzionali urgenti, condivise, puntuali (altri relatori
oggi ne parlano), fattibili con il semplice 138, come avvenne per la riforma del Titolo V, confermata dal referendum 2001 con 5 milioni di voti di scarto; oggi ad esempio, senza
derogare al 138, l’abolizione di una Camera (che riduce tempi legislativi e numero dei parlamentari) si potrebbe in teoria approvare in 6 mesi
d. le procedure di revisione globale non sono previste dalla Costituzione (vedi
http://salviamolacostituzione.wordpress.com/2012/06/20/riforma-­‐della-­‐costituzione-­‐contrarieta-­‐alle-­‐proposte-­‐presentate/); che il governo le approvi tagliando fuori l’opposizione è ancora piú grave; gravissimo sarebbe, a questo punto, impedire anche la controprova popolare del referendum: possibile che si arrivi a questo?
e. è possibile arrivarci, sí, ma al Senato con margine abbastanza stretto: qui la soglia dei 2/3 degli aventi diritto è 212; il plenum dell’attuale maggioranza è 234; nel PD e in Scelta Civica, lo vediamo dai relatori di questo seminario e dai Firmatari del documento di Franco Monaco
(http://www.democraticidavvero.it/adon.pl?act=doc&doc=13002), si è aperta una prima crepa: gli “obiettori di coscienza” avranno il coraggio di perseverare, coagulando ulteriore dissenso rispetto a questa bicamerale governativa, oppure si sono salvati l’anima ma poi, al momento buono, voteranno come tutti gli altri?
7. Rileggo un antico giudizio di Paolo Sylos Labini sulla tentata revisione costituzionale del 1997: "La legittimazione politica scattò automaticamente quando fu varata la Bicamerale: non era possibile combattere Berlusconi avendolo come partner per riformare, niente meno, che la Costituzione..." Vengono in mente due differenze rispetto all’oggi: a quell'epoca (a) parlavamo “solo” di corruzione giudiziaria, frodi, conflitti di interesse e par condicio, mentre adesso parliamo anche di Mubarak, e (b) Berlusconi era all'opposizione, non al governo
insieme ad alcuni di noi.
8. Tuttavia, di fronte alla drammatica crisi economica e di rappresentanza politica, non si possono liquidare, come qualcuno è tentato di fare, le inquietanti somiglianze fra la Francia del 1958 e l’Italia di oggi. Diciamo, dunque, no all’immobilismo costituzionale ed elettorale. Però diciamo un netto no anche al cinismo degli apprendisti stregoni, al furore riformatore di chi da un lato finge di non conoscere i saldi principi del campione di libertà e giustizia insieme
al quale dovremmo riformare la Costituzione; dall’altro dimentica che nemmeno la piú sconvolgente svolta istituzionale della storia recente, la fine dell’URSS, ha impedito a Eltsin, ex sindaco comunista di Mosca, e a ruota a Putin, ex capo dei servizi segreti sovietici, di restare a cavallo (e che cavallo): a riprova che, in assenza di una forte leadership democratica pronta a subentrare, nessun abracadabra costituzionale è in grado, da solo, di produrre l’agognato rinnovamento della politica (e purtroppo se Arcore non è certo Colombey-­‐ les-­‐Deux-­‐Eglises, abbiamo già visto che nemmeno Bettola o Firenze lo sono).
9. Non sono piú in Parlamento e non invidio chi ci sta oggi. Sono però tuttora tesoriere dell'associazione "Salviamo la Costituzione"; siamo pronti a impegnarci in un altro referendum, purché un sufficiente numero di Senatori si metta la mano sulla coscienza e ci consenta di farlo.
10.Questa battaglia sarà durissima, molto piú dura che nel 2005-­‐2006, quando, dopo un attimo di iniziale esitazione, il centrosinistra si schierò compatto contro le riforme costituzionali di Berlusconi, Fini, Bossi e Casini. Invece oggi, o almeno per il momento, il pezzo piú grosso della sinistra parlamentare è favorevole. Per vincere anche stavolta, prima in Parlamento e poi se necessario nel Paese, sembra prudente restare fedeli a Scalfaro ed Elia. Ovvero. Coltivare uno stile di rigore, serenità e massima apertura verso chiunque ami la Costituzione.
Creare un fronte il piú possibile ampio e robusto. Non crogiolarsi nel gruppetto perdente e minoritario che strilla contro ogni riforma, spara sui politici della propria metà campo e rimpiange i vecchi partiti e il proporzionale puro, senza ricordare che la degenerazione finale di quel sistema elettorale ci ha regalato il CAF, l’odierna voragine del debito pubblico, l’impero mediatico senza regole e senza concorrenza di Silvio Berlusconi; mentre, dopo quarant’anni di “conventio ad excludendum”, è stato proprio il sistema elettorale maggioritario, con Prodi,
a riportare un paio di volte l’intera sinistra al governo del Paese. Il titolo di questo incontro e le diverse provenienze politiche dei partecipanti, da Scelta Civica a SeL, suggeriscono che siamo sulla buona strada.
[Intervento di Giovanni Bachelet al seminario “Cambiare con la Costituzione”,
Roma 25/6/2013]

{ Pubblicato il: 01.07.2013 }



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POLITICA - ISTITUZIONI - Le norme della Costituente sulla ineleggibilità parlamentare ( da Il lunedì della critica)

Svolta e rimozione: le norme della Costituente sull'ineleggibilità parlamentare  - di Giovanni Incorvati
 Intendo chiarire una questione su cui sicuramente poco si è voluto riflettere, ma di cui forse non si  parlerà mai abbastanza. Essa riguarda le norme che stabiliscono le cause di ineleggibilità dei candidati al Parlamento, e in particolare le cause di ineleggibilità legate a situazioni economiche.
L’articolo 10 del d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (“Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati”) stabilisce tra l’altro che non sono eleggibili coloro che “in proprio” risultino vincolati con lo Stato per concessioni di notevole entità economica. In applicazione di questa norma la Giunta delle elezioni della Camera, che conta 30 componenti, si è pronunciata tre volte, in tre diverse legislature, sui reclami presentati contro l’elezione di Berlusconi in quanto beneficiario di concessioni radiotelevisive di prima grandezza.
Vincolati in nome proprio?
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La prima volta, nel 1994 (12. legislatura), la Giunta, presieduta da un componente della maggioranza (contro la prassi che la vuole assegnata a un deputato dell’opposizione), rigettò i ricorsi con un solo voto contrario, quello di Luigi Saraceni (del gruppo dei progressisti federativi, ossia Pds e alleati). Degli altri rappresentanti dell’opposizione, Antonio Soda (progressisti federativi) si schierò contro l’ineleggibilità, insieme con la maggioranza. Per il resto Alfonso Pecoraro Scanio e Francesco La Saponara (entrambi del gruppo progressista federativo, il primo anche vice-presidente della Giunta) si limitarono a avanzare “perplessità sulla legislazione vigente in materia di ineleggibilità”, mentre i rimanenti, ossia i due del gruppo Rifondazione comunista-progressisti, gli ultimi due di quello progressista federativo e i due dei democratici, non si sa se preferirono rimanere silenti o assenti.
Nel 1996 (13. legislatura) la nuova Giunta, questa volta a maggioranza di centrosinistra, si pronunciò di nuovo per la “manifesta infondatezza” dei ricorsi e per l'eleggibilità di Berlusconi (p. 10-12 del resoconto). I due componenti di Rifondazione Comunista, Maria Carazzi e Angelo Muzio, si opposero blandamente (in quanto prima bisognava ragionare sulla locuzione “in proprio” contenuta nell’articolo di legge e distinguere tra le diverse situazioni), e comunque le loro voci risultarono debolissime e assolutamente non raccolte per le dovute conseguenze, né dal partito, né dal resto della "sinistra", invischiata anch'essa in simili conflitti.
Lo stesso Massimo D’Alema, che nel 1994, all’epoca della prima decisione, era segretario del Pds, si ostinò nel 2001 a negare la realtà dei fatti (in tale seduta - scrisse su "l'Unità" in una sua lettera - “i deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti”). Tuttavia subito dopo nel 2002 (14. legislatura) la Giunta, presieduta da Antonello Soro del gruppo della Margherita, e composta tra gli altri da sette deputati dei DS, tre della Margherita, e uno ciascuno dei Comunisti Italiani, dei Verdi e degli Ecologisti Democratici, archiviò di nuovo, come nelle due occasioni precedenti, i reclami, “ritenendoli infondati”, ma questa volta all’unanimità (p. 9-11 del resoconto).
In nessuno di tali casi perciò la discussione approdò in Assemblea, come pure previsto dal regolamento. Quel che più conta è che, contro una prassi consolidata, solo un estratto succinto e del tutto insufficiente dei loro verbali è stato reso pubblico. L’unica motivazione che ancora oggi risulta giustificare le decisioni di rigetto è quella iniziale del 1994, resa nota, in forma lapidaria, solo nel 1996 dal successivo presidente della Giunta: la quale Giunta, nel prenderne nota, la faceva propria.
Secondo la motivazione così riportata (p. 10 del resoconto), nell'articolo 10 del testo unico “l'inciso «in proprio» doveva intendersi «in nome proprio», e quindi non applicabile all'onorevole Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni radiotelevisive in nome proprio e che la sua posizione era riferibile alla società interessata solo a mezzo di rapporti di azionariato”. Infatti, si aggiungeva, “l'espressione «in proprio», di cui alla norma di legge, non si riferisce al fenomeno delle società e tantomeno può essere richiamato nei casi di partecipazioni azionarie indirette”.
Tale interpretazione della norma è stata poi ripresa e accettata pedissequamente fino a oggi, anche da giuristi influenti, a parte il caso del magistrato di Cassazione Vincenzo Marinelli, in particolare nel corso della manifestazione a Roma del 23 marzo 2013 (h. 18:34). Questi ha mostrato come la riduzione della locuzione “in proprio” all’altra “in nome proprio” sia del tutto abusiva, anche perché, se si fosse voluto introdurre una restrizione in tal senso, non si vede perché il legislatore non avrebbe dovuto usare la seconda formula. Ma vale la pena approfondire.
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Personalmente vincolati
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La via migliore per capire il significato dell'espressione in proprio rimane sempre quella di consultare l'autorevole parere di chi l'ha scritta, ossia l'Assemblea Costituente, anche se questa strada non è stata mai battuta nemmeno dagli specialisti. Prima però occorre risalire più indietro nel tempo, agli albori dell’Italia unita, quando per la prima volta si era cominciato a parlare di ineleggibilità politica per motivi economici. Già nel 1862 lo scandalo della Società delle ferrovie meridionali, titolare di una importante concessione dello Stato, aveva posto al centro dell’attenzione il fatto che 14 membri del consiglio di amministrazione e diversi azionisti della società si erano fatti eleggere come deputati al fine di favorire politicamente la società stessa.
La relazione del 15 luglio 1864 dell’apposita commissione d’inchiesta della Camera aveva quindi proposto di “stabilire per legge le incompatibilità delle funzioni di deputato colle funzioni di amministratore di imprese sovvenute dallo Stato e con qualunque altra ingerenza che implichi conflitto col pubblico interesse”. Ma poi la legge 13 maggio 1877 n. 3830 "Sulle incompatibilità parlamentari” all’art. 4 dichiarerà non eleggibili in fatto di concessioni solo “coloro i quali siano personalmente vincolati collo Stato”. In tal modo si restringeva il campo di applicazione della norma a coloro che erano titolari di concessioni “in nome proprio” e si escludeva ogni “altra ingerenza”.
Tale formulazione si trasmise inalterata alle leggi elettorali successive, compresa quella del 1919. Il fascismo, portando a compimento il sistema maggioritario della legge Acerbo, oltre a abolire, con legge 17 maggio 1928 n. 1019 "Riforma della rappresentanza politica", la facoltà per gli elettori di scegliere i candidati proposti dalla lista o dalle altre liste di regime (articoli 6 e 9), eliminò anche qualsiasi limite alla eleggibilità politica (art. 11). Veniva portato così a regime e fatto prosperare quel circolo vizioso affaristico-istituzionale di cui il sistema di ineleggibilità meramente formale dell’Italia post-unitaria aveva costituito una delle basi più solide.
Era proprio questo circolo che, con la fine del regime fascista e con l’elezione dell’Assemblea Costituente, si volle sradicare dando l’avvio a un sistema del tutto opposto.  I primi passi in direzione di un simile circolo virtuoso sarebbero stati mossi con la nuova legge elettorale della Costituente, con la composizione stessa di tale assemblea, con le prime pronunce della Giunta delle elezioni, e con la discussione e il varo di una legge per l’elezione dei futuri parlamenti. Per questo motivo i cambiamenti che furono apportati alla legislazione pre-fascista, in particolare in tema di ineleggibilità, non furono “assai marginali”, come ritiene un’opinione corrente in materia.
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Cambiamenti non marginali
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L'art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 1946, n. 74 “Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea Costituente”, utilizzando la formula: "Non sono eleggibili coloro che siano vincolati con lo Stato per concessioni”, riprendeva apparentemente la vecchia norma. In realtà con una mossa strategica introduceva un’innovazione decisiva. Con l’eliminazione dell’avverbio “personalmente” essa includeva anche vincoli di tipo indiretto, non ad personam. Esponendo le ragioni di tale emendamento alla Consulta Nazionale, Amedeo Moscati, del gruppo liberale, chiarì che con esso si “voleva che tutti coloro che avessero una carica eminente nelle funzioni dello Stato non avessero con lo Stato rapporti di interessi che potevano dar luogo a sospetti” (seduta del 19 febbraio 1946, p. 817-818 del resoconto). Attraverso questo decreto legislativo (quello stesso che introduceva per la prima volta il voto femminile) il sistema elettorale di riferimento veniva a mutare in modo radicale.
La linea che si intendeva seguire venne poi esplicitata, tra il settembre e il dicembre 1946, dalla Giunta delle elezioni della Costituente al momento di affrontare il primo ricorso della nostra storia repubblicana - un episodio centrale che rivela la qualità di quella assemblea e che la stacca da tutte quelle che le sono succedute. Si trattava di esaminare la posizione dell’ingegnere Guglielmo Visocchi, come eletto all’Assemblea per l’Unione Democratica Nazionale nella Circoscrizione di Roma. Questi da una parte si era trovato a godere di concessioni per l’utilizzazione di cospicue quantità di acque pubbliche a fini idroelettrici, che poi aveva ceduto a una società anonima (o per azioni) di cui era socio, e dall'altra parte era presidente e azionista per la metà del capitale di una società anonima titolare di una concessione per lo sfruttamento di una miniera di manganese.
La Giunta incaricò il proprio vicepresidente Ruggero Grieco, che ricopriva anche il ruolo di vicepresidente del gruppo comunista, di svolgere in Assemblea la relazione nel merito. In essa Grieco fece risaltare il fatto che “questa società (a cui l’ingegnere Visocchi chiese che fosse intestata la concessione e che egli costituì appositamente a quel fine, sottoscrivendo metà del capitale e riservandosi la carica di presidente) è stato semplicemente un mezzo per sfruttare più comodamente la miniera”. Visocchi insomma aveva disposto le cose in modo che tale società figurasse come la “titolare formale [sottolineato nell’originale] di un affare sostanzialmente suo.” Di qui la conclusione di Grieco: “i molteplici rapporti di concessioni statali in cui l’ingegnere Visocchi entra, o in una veste o in un’altra, dimostrano quanto siano estesi gli interessi personali del Visocchi, in contrasto con quelli dello Stato”, e quindi la fondatezza di una pronuncia di ineleggibilità. Infine lo stesso Grieco confutava la tesi di una presunta abrogazione per desuetudine di una norma che nella prassi parlamentare del passato non aveva trovato applicazione: “nessuno vorrà sostenere che l’efficacia di una norma imperativa di diritto venga meno soltanto perché in una o più occasioni non è stata osservata.”
Nel corso della discussione in Assemblea si sottolineò come l’articolo 11 della legge elettorale mirasse appunto a spezzare il circolo vizioso che aveva portato al fascismo e che lo aveva alimentato. In nessun modo il socio di una società in nome collettivo avrebbe più potuto “farsi schermo della teorica distinzione fra le persone fisiche dei soci e la personalità giuridica della società” (Enrico Molè, p. 808 del resoconto). Per questi motivi l'Assemblea confermò l'ineleggibilità di Visocchi.
Tuttavia la norma di legge, così come era formulata, appariva incompleta e prestava il fianco a interpretazioni cavillose. Perciò Sandro Pertini, come relatore della Giunta in un'altra seduta, sollecitò l'approvazione di "una nuova legge elettorale più drastica in questa materia": occorre - concluse - rendere "ineleggibile chiunque sia vincolato da interessi con lo Stato” (p. 2 del resoconto). Aderendo a tale invito e per sventare il tentativo del governo di reintrodurre l'avverbio "personalmente" nella formulazione della norma sull'incompatibilità in materia di concessioni (art. 15 del suo d.d.l.), la Costituente dette l'incarico a una commissione apposita di redigere un nuovo disegno di legge per l'elezione della Camera da applicarsi poi anche al Senato, d.d.l. il cui articolo 2-quinquies che qui interessa fu discusso e approvato nella seduta del 16 dicembre 1947 (p. 3254 del resoconto).
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Vincolati nel proprio interesse economico
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In generale, sia la Commissione che l'Assemblea ritenevano acquisito il principio che era stato fatto proprio dalla Giunta delle elezioni secondo cui, nell’esaminare la posizione delle persone, non ci si deve arrestare al livello formale dei rapporti. Ciò che rileva è in primo luogo il rapporto materiale degli interessi, il loro profilo economico sostanziale, che, per poter essere preso in considerazione, deve essere di "notevole entità". Perciò l’avverbio “personalmente” fu cancellato dal lessico dell'ineleggibilità. Al suo posto, con l'inserimento nel nuovo art.  2-quinquies di due frammenti, venne dato rilievo alla tensione che si stabilisce tra il proprio interesse di coloro che hanno rapporti d’affari con lo Stato e il pubblico interesse che dovrebbe essere tutelato da quest’ultimo.
In nessun  momento della discussione risulta che qualcuno dell'Assemblea abbia voluto dare alla locuzione "in proprio", che in tali contesti veniva utilizzata per la prima volta, un senso neanche lontanamente riconducibile a "in nome proprio". Tutto all'opposto, nel corso del dibattito fu sottolineato che, nel caso di concessioni o autorizzazioni di notevole entità economica, a entrare in conflitto con il pubblico interesse non è il nome, ma l’interesse di chi risulta vincolato in proprio (interventi di Umberto Grilli e di Vito Reale, p. 3246 e 3250 del resoconto). La norma presentata riguardava infatti coloro "i quali hanno rapporti di affari di milioni con lo Stato o hanno ottenuto concessioni che fruttano loro milioni" (intervento di Ludovico Sicignano, p. 3244). Come si faceva notare, in tali casi si tratta di impedire "la possibilità che il deputato adoperi, a proprio beneficio o a beneficio della società che rappresenta, la propria influenza" (intervento di  Umberto Nobile, p. 3245).
Fu soprattutto l’intervento di Mauro Scoccimarro, presidente della commissione incaricata del d.d.l. (e, insieme con Grieco, vicepresidente del gruppo comunista), che chiarì il pensiero comune della Commissione e indicò nell'ineleggibilità fondata su un legittimo sospetto il principio generale a cui il disegno di legge si ispirava: “quando l’esercizio, l’uso od usufrutto di determinate concessioni od autorizzazioni possono far nascere il legittimo sospetto che servono a conquistare posizioni elettorali che altrimenti non si conquisterebbero, allora si afferma un principio di ineleggibilità.” Ma tale principio si afferma attraverso la duplice valutazione dell’esistenza di fatto e dell'entità economica dei vincoli e dei relativi obblighi, indipendentemente dalla loro formulazione giuridica:
"non si possono avere rapporti di affari con lo Stato che importano miliardi, qualunque sia la formula giuridica del rapporto, e sedere in quest'Aula! (...) Gli affaristi facciano pure i loro affari ma non pretendano di assumere anche il compito della direzione della cosa pubblica. Non mescoliamo le due cose, come troppo ha fatto il fascismo, e come taluni, pare, pensano di continuare a fare anche oggi, continuando così il costume fascista."
Per questo occorreva considerare il fascismo come un fenomeno di più lunga durata rispetto a quanto si riteneva abitualmente, il cui nucleo più forte era dato dal nesso economico-istituzionale: “dopo venticinque anni di fascismo durante i quali in quest’Aula hanno seduto i più loschi affaristi (…) c’è ancora in Italia chi pensa che è possibile servirsi degli affari per conquistare una posizione politica e servirsi poi della conquistata posizione politica per potenziare i propri affari” (p. 3247 del resoconto).
La nuova norma, nella formulazione approvata dalla Costituente e senza essere più cambiata, entrò prima nella legge 20 gennaio 1948 n. 6 (art. 7), poi nel d.p.r. 5 febbraio 1948, n. 26 "Testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati" (art. 8), e infine nel d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361 (art. 10). Quello che invece venne a modificarsi fu l'atteggiamento delle forze parlamentari, in particolare di quelle formalmente d'opposizione: una causa essenziale dell'involuzione successiva, così vistosa nell'ultimo ventennio.

[L'edizione integrale di questo saggio sarà pubblicata  nel prossimo numero del mensile "Critica liberale"]

{ Pubblicato il: 01.07.2013 }



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